Questi i dischi che Round Midnight ha scelto tra le uscite dell’anno appena trascorso. Sono quelli che ci sono più piaciuti o che ci sono sembrati più importanti tra le moltissime uscite discografiche del 2017.
Per comodità e per darvi una panoramica più ampia possibile li abbiamo divisi in tre sezioni (Internazionali, Made in Italy, e i Beautiful Ghosts, ovvero live e inediti d’annata e ristampe imperdibili) e per ciascuna di queste vi abbiamo selezionato dieci dischi.
Proseguiamo nella seconda parte con i nostri italiani favoriti. Che a dire il vero sono undici, ma proprio non riuscivamo a decidere quale album sacrificare per fare cifra tonda. E così ci siamo arresi, e undici ne abbiamo lasciati.
Zeno De Rossi: Zenophilia (Auand)
Agile, scattante ed essenziale l’ultimo progetto musicale di Zeno De Rossi, in trio con il sassofono e il clarinetto di Piero Bittolo Bon e il trombone di Filippo Vignato. Dieci composizioni originali e due cover (il tema di Taxi Driver, di Bernard Hermann, e Feet Music di Ornette Coleman). C’è tempo anche per un paio di omaggi a due grandi maestri della batteria, Ed Blackwell e Joey Baron. E proprio da Baron e dal suo Barondown parte probabilmente l’idea originale di questo trio trombone/ sax/ batteria.
Alessandro Galati: Wheeler Variations (Somethin’Cool)
Un omaggio a Kenny Wheeler, all’uomo e al suo mondo musicale, arriva da Alessandro Galati, alla testa dell’ensemble riunito per questo progetto. Nel sestetto c’è posto per un collaboratore di vecchia data di Wheeler, il roccioso sax tenore dell’inglese Stan Sulzmann, spalla a spalla con il soprano di Stefano Cantini, il contrabbasso di Ares Tavolazzi, la batteria di Enzo Zirilli e, novità per la musica di Galati, una voce femminile, quella di Simona Severini. Ci sono una serie di composizioni per sestetto, ognuna intitolata con una delle sillabe che compongono il nome di Ken-Ny-Wheel-Er, inframezzati da una serie di improvvisazioni in studio in cui i musicisti si dividono in formazioni e combinazioni estemporanee, duetti trii, quartetti : dodici, come le lettere che compongono il nome del trombettista. I quattro temi principali sono tutti cantati da Simona Severini, e per la prima volta Galati si è cimentato anche nella scrittura dei testi delle canzoni, tutte in inglese. Un omaggio lirico e vibrante in ricordo di un grande maestro.
Tiziana Ghiglioni/Steve Potts/Gianni Lenoci: No Baby (12 Lune)
Un album su cui aleggia la silhouette di Steve Lacy, che osserva benevolo da dietro lo specchio.
Del trio qui riunito, Steve Potts è stato il fido compagno di avventure di Lacy per trent’anni, Tiziana Ghiglioni ci ha inciso insieme due dischi di classe come Somebody Special e SONB e Gianni Lenoci ha collaborato in più occasioni con il maestro del sax soprano e gli ha anche dedicato un album di piano solo qualche anno fa. Ma c’è spazio anche per Mal Waldron, altro musicista che con Lacy ha avuto un rapporto lungo e simbiotico e che viene ricordato con una versione del suo Let us live e con un brano a lui dedicato. Di grande suggestione poi le tre ballad originali, pennate dal pianista e dalla cantante, con Turquoise che manda un saluto a Duke Ellington e Fagan che accarezza Billie Holiday . C’è spazio ancora per la Lonely Woman di Ornette Coleman, un brano con cui la Ghiglioni ha una storica frequentazione fin dal suo disco di esordio, che proprio alla Donna Sola era intitolato.
Simone Graziano: Snailspace (Auand)
Ce l’aveva già in testa da qualche anno Simone Graziano un nuovo trio, provava e ci girava intorno cercando il baricentro giusto. L’incontro con il basso di Francesco Ponticelli era già stato fruttuoso e illuminante, ora lo stimolo finale è arrivato dall’incontro con il batterista americano Tommy Crane, di St.Louis, già allievo di Andrew Cyrille e Billy Hart, scoperto a un concerto del gruppo di Ambrose Akinmusire, un musicista con uno stile personale che può, di volta in volta, essere molto soft ed essenziale o, all’occorrenza, propulsivo, rockeggiante e pirotecnico. E’ nato così Snailspace, un gruppo che vede Graziano al pianoforte, ma anche al Fender Rhodes e al synth e che allarga la tavolozza dei colori musicali di uno dei personaggi più interessanti del nuovo jazz italiano.
Gabriele Mitelli O.N.G.: Crash (Parco della Musica)
Talento inquieto e senza compromessi, Gabriele Mitelli lancia un nuovo progetto musicale dall’organico decisamente originale. Al suo fianco due dei chitarristi più dotati del nuovo jazz italiano, Gabrio Baldacci (alla chiarra baritono) ed Enrico Terragnoli, nonchè la sicurezza di una fantasia e una spinta che solo la batteria di Cristiano Calcagnile può darti. A Mitelli in questo progetto i singoli brani vanno stretti così, per evitare cali di tensione nella musica, preferisce riunire l’incisione in tre lunghe suite. Musica magmatica, ribollente, eccitante ed urticante, con echi del Miles elettrico più selvaggio, impennate rockeggianti, e ampi spazi lasciati all’improvvisazione pura. Una musica che cammina ad occhi chiusi sull’orlo dei confini, concedendosi anche qualche piroetta di troppo ma senza mai perdere l’equilibrio. Nel menù anche un pizzico di Sun Ra (Lanquidity) e la cover che non ti aspetti: A Tratti, dei CSI. Ma mi sa che a darci l’inaspettato Mitelli giustamente si diverta, e che di queste sorprese ce ne siano ancora diverse in arrivo in futuro.
Ada Montellanico: Abbey’s Road (Incipit)
Ada Montellanico rende un doveroso omaggio ad Abbey Lincon, e sforna un disco che gioca scherzosamente nel titolo anche con uno dei più famosi dischi dei Beatles. Un disco per Abbey, lei che ha vissuto molte vite, prima e dopo essere stata la compagna di vita, di arte e di lotte di Max Roach nonché la voce affascinante ed insostituibile di We insist! Freedom Now Suite e di Percussion Bitter Sweet, lei che nei suoi dischi ha ospitato Sonny Rollins, Eric Dolphy, Coleman Hawkins, Mal Waldron, Kenny Dorham, Winton Kelly, Paul Chambers, Philly Joe Jones: e mi fermo qui perchè potremmo andare avanti ancora per un bel pezzo. Cantante, ma anche attrice, attivista, autrice, Abbey è stata presenza affascinante ed orgogliosamente indipendente sin dai suoi esordi. Per questo tributo la Montellanico riconferma come braccio destro musicale Giovanni Falzone, autore anche degli arrangiamenti dell’album, allestisce un quintetto con il trombone di Filippo Vignato, il contrabbasso di Matteo Bortone e la batteria di Ermanno Baron, con una scelta di brani che va a pescare dai vari periodi del percorso artistico della Lincon, aggiungendo poi un brano a lei dedicato ad altri brani originali di raccordo. Il gruppo si muove spedito, i due ottoni di Falzone e Vignato dimostrano subito un’ottima intesa, la scelta di fare a meno dell’ancoraggio armonico di un pianoforte si rivela vincente, la ritmica di Bortone e Baron è una sicurezza. Abbey era unica, un omaggio per ricordarla e ribadire la sua importanza nel jazz moderno è cosa buona e giusta.
Roberto Ottaviano QuarkTet: Sideralis (12 Lune)
Torna in studio d’incisione Roberto Ottaviano, ed è sempre un bel sentire. Specie in questa occasione, in cui al pianoforte c’è il brillante Alexander Hawkins, già tre anni fa con Ottaviano nell’omaggio a Steve Lacy di Forgotten Matches, e alla sezione ritmica troviamo due rodati fuoriclasse statunitensi come il bassista Michael Formanek e il batterista Gerry Hemingway. Il concetto dell’album si rifà al cosmo (non per niente il gruppo viene battezzato QuarkTet) e a un immaginario peregrinaggio spaziale, dove si ricorda soprattutto la magia dell’ultimo Coltrane (quello stellare di Sun Ship, Interstellar Space, Stellar Regions, Cosmic Music), un viaggio dove si sfiorano pianeti che gravitano attorno a John Lee Hooker, Duke Ellington o Herbie Nichols, si citano Ayler e Sun Ra, si scrutano comete, si intercettano costellazioni. Bello sentire una musica che vibra ancora senza confini né barriere, nutrendosi del rispetto e della curiosità reciproca di quattro maestri. Bello nutrirsi di rispetto per il passato sfrecciando verso il futuro. Bello anche risentire Ottaviano soffiare anche in un sax baritono, come avviene in Holy Gravity. Che sia uno dei migliori sopranisti in circolazione invece già lo sapevamo da un pezzo.
Francesco Ponticelli: Kon-Tiki (Tuk)
Elastica, la musica di Francesco Ponticelli. Nell’organico che si restringe o si allarga a seconda dei momenti (in questo caso la formazione si è asciugata a quartetto, ma già sono in corso manovre per ampliare e rinnovare nuovamente l’organico), e nell’ispirazione, che cerca e regala stimoli continui e che cambia forma di volta in volta. Con lui, a zonzo sull’avventurosa zattera di Kon-Tiki, troviamo il sax tenore e il clarinetto di Dan Kinzelman, il pianoforte e le tastiere di Enrico Zanisi e la batteria di Enrico Morello, un ottimo equipaggio per una spedizione pronta a tutto per esplorare nuovi orizzonti musicali.
Fabrizio Puglisi Guantanamo: GialloOro (Caligola)
Che Fabrizio Puglisi sia uno dei migliori pianisti in circolazione per l’Europa dovrebbe essere cosa ben nota. Nota anche la sua fame costante di nuove esperienze, l’interesse senza confini per le musiche del mondo e il suo orecchio sempre ben aperto. Nasce così Guantanamo, progetto già da tempo attivo e giunto lentamente alla giusta maturazione, un gruppo che va alla ricerca dei sapori più sanguigni di Cuba, delle radici Yoruba della Santeria, delle connessioni afrocubane nel jazz.
Si va così a cercare le sintonie Lukumì di Un Poco Loco, anomalo capolavoro del tormentato genio di Bud Powell, mentre Turkish Mambo di Lennie Tristano si dilata e trova felici e stimolanti dissonanze nel piano preparato e nel synth di Puglisi. Ci si tuffa poi direttamente nel mare di Cuba, lasciandosi andare con i canti iniziatici di Ogun (ospite la voce di Venus Rodriguez) e poi con una versione irresistibile de La Comparsa, vero classico di uno dei figli prediletti e vera gloria musicale dell’isola, Ernesto Lecuona. Al fianco del pianista un gruppo ben assortito con in bella evidenza il vibrafono di Pasquale Mirra, spinto e stimolato dalle percussioni di Danilo Mineo, William Simone e Gaetano Alfonsi e sorretto dal contrabbasso di Davide Lanzarini. Guantanamo danza e sorprende, ti prende per la mano e ti porta a spasso dove non ti aspetti. Sempre con la protezione benevola di Ogun e di Chano Pozo.
Roots Magic: Last Kind Words (Clean Feed)
Giunto al secondo album, ancora una volta per l’etichetta portoghese Clean Feed, i Roots Magic confermano una formula musicale essenziale ed efficace, con i clarinetti di Alberto Popolla, i sassofoni di Errico De Fabritiis, il basso di Gianfranco Tedeschi e la batteria di Fabrizio Spera. E sanno pescare anche stavolta una scaletta preziosa, che va ad attingere soprattutto dal grande Blues dalle radici più sanguigne (il mito di Charley Patton, ma anche Last Kind Words della misteriosa bluesgirl Geeshie Wiley) e a una serie di scoppiettanti brani di Henry Threadgill, Roscoe Mitchell, Julius Hemphill, Marion Brown e Hamiett Bluiett, tutti autori legati al free e al post-free jazz, ma qui pescati nelle loro intuizioni più blues & groove. Una specie di versante quasi danzereccio e molto saporito dell’avanguardia, e di dimostrazione che certe musiche, prese per il verso giusto, riescono a rivelare sempre nuovi aspetti da esplorare e da gustare. Tutto gira a meraviglia, tutto si gioca nei tempi giusti. Musica che sa di terra e di Mississippi, di strade polverose e di vento in faccia, di canti attorno al fuoco e di bootleg whisky, di mojos e di crossroads diabolici. Musica delle radici, magica non a caso.
Tiziano Tononi & Southbound: Trouble No More: All Men are Brothers (Long Song)
Un mucchio di ragazzi poco più che ventenni innamorati del blues, questo erano gli Allman Brothers Band al momento della nascita. Certo, Duane Allman era già considerato uno dei migliori chitarristi in circolazione e faceva già parte del giro di musicisti che ruotavano attorno ai mitici FAME Studios a Muscle Shoals, dove aveva già ampiamente fatto valere il suo talento. Ma è con la nascita del gruppo che si crea la leggenda di una band straordinaria, una band che si afferma rapidamente grazie alla qualità e genuinità della sua musica e all’intensità dei suoi live esplosivi, con brani che si dilatano e si espandono in lunghe jam strumentali. Una storia, quella degli Allman Brothers, brillante e sfortunata, azzoppata da due morti assurde che nel giro di un anno, in due incidenti motociclistici tragicamente simili, privano il gruppo di Duane e del bassista Barry Oackley. Un gruppo di ragazzi, dicevamo: kids orgogliosi delle proprie radici sudiste ma che volevano un sud diverso da quello razzista e reazionario che ancora da quelle parti resisteva. E loro, che credevano in un mondo migliore, che amavano la black music, che vivevano tutti insieme in una specie di comune, stavano provando a dargli una bella spallata e a scardinarlo. Per rendere omaggio a una band che ha sempre amato molto Tiziano Tononi riunisce i Southbound, un ottetto con i sax di Emanuele Passerini e Piero Bittolo Bon, il violino di Emanuele Parrini, la fisarmonica di Carmelo Massimo Torre, il basso dell’ospite americano Joe Fonda, le percussioni di Pacho e la voce di Marta Raviglia, a cui si aggiungono poi due ospiti di riguardo come Fabio Treves e Daniele Cavallanti. Quattordici brani, in massima parte provenienti dal repertorio degli Allman Brothers, più tre originali, firmati da Tononi, in memoria di Duane (Skydog era il suo soprannome) e di Oackley. Una cavalcata selvaggia dove il southern rock a tinte blues degli ABB e il jazz e le improvvisazioni dei Southbound si sposano felicemente, dimostrando come la fusione tra musiche solo in apparenza così diverse, ma che nascono dalle stesse radici nere, sia non solo possibile ma ottimamente riuscita. Un album già apprezzato anche all’estero, recensito con quattro stelle dalla storica rivista americana Down Beat. E non son cose checapitano spesso.