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Francesco Borgheresi, fermato per l’omicidio di una donna a Cuneo ieri sera, è nato nel 1978 e fino all’età di 20 anni è vissuto nella comunità ‘Il Forteto’ di Vicchio, in provincia di Firenze, al centro di processi per violenze sessuali e maltrattamenti conclusi con numerose condanne. E’ quanto evidenzia l’Associazione vittime del Forteto, precisando che Borgheresi non era uno dei bambini affidati, dal tribunale di Firenze, alla comunità di Rodolfo Fiesoli, detto il Profeta, bensì figlio di soci fondatori della comunità.
“Dolore, tragedia nella tragedia e ancora dolore – commenta l’Associazione delle vittime – Francesco Borgheresi è nato al Forteto da una socia fondatrice di quella che, per 40 anni, è stata considerata una comunità taumaturgica per minori e disabili. In ottemperanza al dogma ‘fortetiano’ del rifiuto della famiglia di origine, non è stato cresciuto dalla madre ma affidato da Fiesoli a una madre ‘funzionale'”.
Nel processo del Forteto Borgheresi è stato testimone dell’accusa e ha contribuito a ricostruire parte delle vicende avvenute nella comunità. Lì ha vissuto fino al 1998, prima di essere mandato a fare il servizio civile, che lui interruppe per intraprendere la carriera militare. Sul Forteto, che è stato commissariato, è stata di recente insediata una commissione parlamentare d’inchiesta che dovrà far luce sugli oltre 40 anni di attività della comunità. Inoltre, la madre ‘funzionale’ di Borgheresi “Daniela Tardani – ricostruiscono ancora le vittime del Forteto – è stata condannata nel processo a 6 anni e 4 mesi di reclusione, in quanto accompagnava uno degli affidati nella camera di Fiesoli per fargli ‘togliere la materialità'”. Era questa l’espressione, emersa nel processo, che veniva usata da Fiesoli per motivare le pratiche sessuali su giovani e minori maschi nella comunità. Fiesoli è stato condannato per abusi sessuali, anche su minori, e maltrattamenti a 14 anni e 10 mesi in Cassazione e sta scontando la pena definitiva nel carcere di Padova. “Non basta il commissariamento” del Forteto, afferma l’associazione delle vittime, un gruppo di ex bambini della comunità dalle cui denunce, fatte da adulti, è scaturito il processo.
“Non basta istituire commissioni d’inchiesta regionali e parlamentari, non bastano le sentenze, i progetti assistenziali, i convegni, le scuse delle istituzioni, gli attestati alle vittime, non basta riconoscere di avere sbagliato. Quando si crea un corto circuito, occorre ripararlo – spiegano – Se si vuole evitare che accadano ancora fatti come quello di ieri, il Forteto deve essere chiuso per sempre, cancellato il nome legato a quelle orrende nefandezze e le vittime devono essere assistite adeguatamente e risarcite. Non bastano le scuse, serve chiudere, assistere le vittime e risarcire il danno provocato”.