CELLI Pier Luigi, La manutenzione dei ricordi, chiarelettere
[«Non son chi fui; perì di noi gran parte» (Ugo Foscolo).
Molte e autorevoli voci ci hanno ripetutamente messo in guardia: «Il passato è una
terra straniera» (Gianrico Carofiglio); «Il passato è un (il) luogo (più) pericoloso
(del mondo)» (Joyce Carol Oates); «Si torna e si ritorna al passato per impedirgli
appunto di tornare» (boh?); e anche «Molto scuro è sempre il colore del ricordo»
(Nelly Sachs); e ci si mette pure l’ingegnere Massimi il quale «sa bene che non c’è
nulla di più scivoloso che maneggiare i ricordi». Ma io, ragazzaccio sventato e
rimasto sempre un po’ cazzone – come ancor oggi giurerebbe convinta la mia ex
compagna di liceo Anna S. -, da tempo ho deciso che val la pena di rischiare. Forse
perché, come Umberto Silva (Turmac bleu), «voglio soltanto nuotare in quel
passato che come ogni passato non passa mai», forse perché «non c’è niente di più
inattendibile e delizioso dei rumorosi ricordi che uno ha di sé stesso (Jenny Diski)
pur consapevole che «non si può tornare ingenui a piacimento» (Sandro Campani)
e che un memoir «è una forma letteraria che nella mia testa gioca a nascondino
con la verità» (J. Diski). E poi «a qualcuno le cose bisognerà pur raccontarle,
sennò è come se non ci fossero state» (Campani). Dàtemi pure, quindi, del
‘passatologo’, non me ne avrò a male, anzi quasi quasi ce lo scrivo su un cartellino
e me l’appunto al petto!
La manutenzione dei ricordi è un libro impietoso e struggente, doloroso e lenitivo
insieme come tutti i libri che scelgono di inoltrarsi nel passato, personale e
collettivo, con coraggio, occhi aperti e possibilmente asciutti nonché senza
paraocchi. È un libro che parla di noi, intendo di quelli della mia generazione, di
coloro che avevano vent’anni o giù (o su) di lì tra la fine degli anni Sessanta e
l’inizio degli anni Settanta del ‘900. Lèggerlo è come guardarsi allo specchio: quel
che vedi può piacerti o meno, ma non si scappa. A meno che uno non distolga
volutamente lo sguardo o abbassi gli occhi. Forse non parla di tutti noi, ma di
molti sì; di me sicuramente. Certo so bene che quegli anni ognuno li ha vissuti a
modo suo e non è affatto detto o scontato che tali modi siano simili o equiparabili,
però in qualche modo ci siamo pur stati dentro, no? Da protagonisti o da
comprimari, vuoi da comparse o anche soltanto da spettatori… Ma è un libro che
«colpirà al cuore» (come avrebbe detto Anna Bravo) anche quelli più giovani di
noi perché la materia, incandescente, è quella che non ha scadenza né soggiace alle
mode passeggere o ai gusti generazionali: l’amicizia, l’amore, l’impegno, le
passioni, le meschinità umane, il tradimento, la coerenza e il compromesso…
È la storia di sei amici che nel maggio del ’68 partirono in autostop per la Francia
decisi a vedere l’inizio della rivoluzione e a portarla in Italia: Romolo «Setteseghe»
Derobertis detto anche Suslov o Che Guevara; Pietro «ser Ciappelletto» Claudiani
o più brevemente Ciap (ma anche Mistico); Lorenzo «Lollo» Giudici; Angelo «il
Volatile»; Francesco abbreviato in Franz e Luigi «Ganzo» Massimi (ci sarebbe
stato anche un settimo, Riccardo, ma…). «Erano sei, amici inseparabili, sempre
alla ricerca di qualcosa per cui valesse la pena di evadere dall’inutilità di giorni
che si consumavano uguali nell’attesa, mentre tutto intorno sembrava prendere
fuoco».
Dopo quel viaggio ciascuno di loro fece scelte e prese strade diverse, chi baciato dal
successo, chi perso tra i monti in Alto Adige, chi in Africa, chi a consolarsi con il
vino e con le donne. Intanto il tempo passa. Dopo cinquant’anni il Ciap decide di
riunirli di nuovo, li rintraccia («Non è stato semplice, dispersi chissà dove, dif icile
anche sapere se fossero ancora tutti vivi… e gli torna in mente che in altri tempi
bastava un fischio sotto casa…»), li convoca e rieccoli tutti insieme (in)decisi a
riavvolgere il nastro della memoria («Il ghiaccio non si scioglie, troppi anni da
digerire in un colpo. (…) Tentano di buttarla sul ridere, un po’ di Parkinson non è
la fine del mondo alla loro età. Poi scostano le sedie, provano a dirsi qualcosa,
tanto per riempire il vuoto, non è facile per nessuno tirarsi fuori dal guscio»): gli
anni Settanta, le lotte in strada, lo scontro generazionale, la violenza mescolata alla
forte tensione ideale. Dal vivo dei ricordi emergono rapporti sbagliati, sgarbi
velenosi, amare compromissioni, in cui la miseria del presente si mescola al
ricupero di eventi e di incontri drammatici insieme con altri ridicoli o goliardici:
come quando Angelo e Lollo colorarono di rosso la grande fontana dell’università
o quando Lollo scalò la facciata del rettorato inseguito dal commissario
Mazzatosta. («Abitavano tutti all’Africano, allora e le birre erano proprio lì,
all’angolo – per noi furlàns, le osterie in città e le frasche in campagna! – … Non
servivano grandi discorsi, le alternative non erano molte in quegli anni e poi le
voglie, che pure cominciavano a crescere, dovevano fare i conti con una realtà
che ancora non le comprendeva. Così ci si sfogava immaginando e dandoci
dentro con le parole. “Tu hai solo quello in testa, vecchio porco. Prova a chiedere
alle compagne, se hai il coraggio”. “Ma in sezione sono tutte così intellettuali, dài,
è come andare a ripetizione. Non c’è modo di tirarsi su lo spirito; se va bene ti
parlano dell’ultimo fondo di Rinascita”.»).
Poi piomba su tutti loro il dramma di Francesco…
A raduno cominciato si aggiungono tre donne: Valeria (ex moglie di Luigi), Teresa
(la segretaria dell’ingegner Massimi, «donna di poche e solide convinzioni, la più
tenace delle quali fa riferimento a un suo credo elementare: tutti gli uomini
hanno qualcosa da nascondere, i capi qualcuna di più») e Mirella (e morosa di
Riccardo) che avranno una parte importante, anzi decisiva nell’influenzare e
condizionare lo sviluppo e gli esiti della rimpatriata.
Non è facile fare pace dopo cinquant’anni con vite che hanno più rimpianti che
allegrie, e che si rispecchiano nella storia di un Paese che ha progressivamente
abbassato ogni tensione morale. Che è rimasto di quella voglia di cambiare il
mondo? Celli non fa sconti alla sua generazione. E non basterà una confessione
tardiva ad assolverla da peccati che non paiono avere redenzione possibile.
«Siamo tutti vivi. Ce lo dovremmo dire subito, e sarebbe già qualcosa».
«Che cosa succederà, Angelo?» «Te lo dico io, Pietro… nulla; non cambierà
proprio nulla. Torneremo alle nostre case, ci penseremo tutti per qualche giorno,
forse ci scapperà anche una telefonata… siamo gente educata, in fondo… Come
stai? Ti ricordi? È stato bello, no? Sì, sì, certo che lo rifacciamo, magari quando il
tempo migliorerà. Non si dice forse così: “Non perdiamoci di vista”? Intanto il
tempo passa, qualche volta quel pensiero di ritrovarci fa capolino, sempre meno
urgente però, e sbiadisce così come è arrivato. Prima o poi giunge forse la notizia
che qualcuno del vecchio gruppo non ce l’ha fatta, l’età è quella che è, lo
sappiamo. Al funerale non ci siamo neppure tutti, il solito impegno
improrogabile, come se ai vecchi restasse qualcosa di importante da fare, oppure
chessò una malattia… abbiamo pur sempre i nostri anni, un malanno è più che
normale. E così, senza che ci facciamo caso, tutto si spegne.»
«E adesso? Adesso, che succede, Angelo?». «Adesso è il momento di salutarci,
Pietro. Cerca di stare bene… ci hai fatto passare qualche giornata che valeva la
pena, e non era detto che succedesse dopo tanto tempo. Solo che da ora in poi
sarà tutto più dif icile… i ricordi non perdonano e noi siamo ormai troppo vecchi
per farci pace. Forse, a pensarci bene, sarebbe stato meglio se ci lasciavi dove
eravamo».
«State solo attenti alle osterie. Il biondo gli dà giù mica male, ultimamente…».
«Il buon vino non rovina nessuno e, in ogni caso, non guasta le amicizie. Anzi.
Con il tasso alcolico alle stelle faremo discorsi elevati». «Sì, sì, se vi conosco bene,
parlerete di fighe alate, zozzoni come siete…».
«A Pietro era parsa una bella trovata, poterli ospitare per qualche giorno nel suo
ritiro ai piedi delle montagne e provare a parlare della vita che avevano fatto
dopo che si erano lasciati (…) Più che la paura di perdere per sempre l’occasione
di un nuovo incontro, lo spingeva un misto di curiosità e di af etto…».
«Bisognerebbe farci caso a come si invecchia. Si continua a vivere nello stesso
corpo, il carattere rimane quello, ma non ci si accorge che piano piano il fisico
diventa un’altra cosa. E questo finisce per cambiare anche percezioni e
sentimenti».
«(Lorenzo) a pensarci bene ne avrebbe fatto volentieri a meno. Non aveva mai
avuto voglia di tornare a rimestare indietro nel tempo. Ormai gli anni erano
volati via quasi tutti e, a essere saggi, cosa che a lui non era mai riuscita
particolarmente bene, sarebbe stato meglio continuare a prendere i giorni come
venivano, senza contarli. O, al massimo, se proprio gli andava, guardare avanti
qualche volta per mettere in programma un passatempo che gli facesse godere
quel che gli restava (…) Tuttavia quella telefonata del vecchio Pietro aveva
rimesso in moto una parte di vita e gli aveva procurato un piacere dal sapore
quasi dimenticato, quello delle antiche amicizie che non avrebbe mai più
sperimentato di uguali. “Chi era al telefono?”, gli chiede il figlio. «Uno di 50 anni
fa, Federico… Di quelli che non vedi per una vita e quando compaiono è come se
non fossero mai scomparsi. Ma non credo che tu possa capire… altri valori,
oggi… Il mio è un sentimento da vecchi».