Formato Cartaceo del 22 gennaio 2023

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    AXELSSON Majgull, Io non mi chiamo Miriam, Iperborea

    Raus!» urla l’Aufseherinla sorvegliante. «Avanti, fuori!». Ha una frusta dietro la schiena. Poi la solleva. «Non hai sentito che cosa ho detto, brutta cretina? Sei sorda? Raus! Raus! Raus!». E la ragazzina, quindici-sedici anni al massimo, quella ragazza che proprio oggi compie 85 anni, soffoca un grido ed esce dalla cella delle punizioni.

    Ma che succede? Miriam apre gli occhi e respira affannosamente, si guarda intorno, per un attimo non capisce, eppure è di nuovo lì, in Svezia, nella sua bella casa di Nässjö, nel suo letto, al calduccio sotto il piumone a quadretti e ora sente, fuori della porta della camera, passi in punta di piedi: intuisce le pantofole di suo figlio Thomas e le babbucce della nuora Katarina, i piedini scalzi della nipote Camilla. Vengono a farle gli auguri e a portarle il dono di compleanno.

    Miriam si asciuga in fretta le lacrime agli angoli degli occhi, liscia la coperta. Poi solleva i cuscini dietro la schiena e si sistema i capelli bianchi. Sorride, ha ricacciato tutto indietro. È pronta, ecco che arrivano cantando: Con un semplice tulipano tanti auguri ti facciamo… «Auguri, mamma!». «Auguri, nonna!».

    Poi lo dice. Poi lascia che quelle parole le affiorino alle labbra: «Io non mi chiamo Miriam».

    Quella che le sfugge è una verità che ha tenuto accuratamente nascosta a tutti per 70 anni. Perché il suo nome vero comincia per M come Miriam, ma non è Miriam. Miriam lo è diventata in un attimo decisivo durante il terribile trasferimento da Auschwitz a Ravensbrück. Nel primo campo lei non stava tra gli ebrei, ma in un altro settore…

    Sono pochissimi i romanzi sulla Shoah che non si basino su una storia vera o che non siano stati scritti da autori a loro volta sopravvissuti ai lager nazisti: Io non mi chiamo Miriam è uno di questi (un altro, atroce e lacerante, è Una luce quando è ancora notte di Valèntine Goby, pubblicato in Italia da Guanda). Sono sicuro che soltanto grazie a una acuta sensibilità, delicatezza ed empatia umana la svedese Majgull Axelsson ha potuto «vivere la vita di Miriam» e trasmetterla a noi suoi lettori. Questo libro vìola e smentisce un tabù (espresso in modi e forme diverse da Elie Wiesel, Maurice Blanchot, Theodor Adorno, dallo stesso Primo Levi) e cioè che «non è possibile scrivere poesia dopo Auschwitz».

    Lèggetelo, ascoltate il racconto di Miriam, non abbiate timore delle vostre emozioni, non fate come coloro che tacquero per timore di non essere creduti o come quelli che evitano le cose spiacevoli chiudendo gli occhi e tappandosi le orecchie. Questo libro vi colpirà al cuore facendovi riflettere sull’identità, la paura, l’appartenenza, l’amicizia, il sospetto, la solitudine, la fiducia, l’abbandono, il dolore. Questo libro ci ricorda che i «latrati del disumano» che risuonarono nell’anus mundi di Auschwitz continuano ancora oggi ad affiorare dovunque nel mondo perché fanno parte inscindibile e inevitabile della natura bifronte dell’uomo.

    Non dimenticate l’ammonimento di Primo Levi: «Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. // Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno. // Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. /Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli…»]