Una delle figure più rappresentative della musica reggae, scomparso all’età di 80 anni. Per l’occasione ripubblichiamo la bellissima intervista che nel 1999 concesse al nostro Giuseppe “Jaka” Giacalone.
Morto sabato all’età di 80 anni per via di una complicazione cardiaca il musicista reggae giamaicano Max Romeo (Maxwell Livingston Smith), noto per brani come Chase the Devil e War Ina Babylon, uno dei più grandi artisti della storia della Black music.
Esordiente nel 1965 come frontman degli Emotions, il suo album del 1976, War Ina Babylon, pubblicato dalla Island Records e supportato dalla band giamaicana Upsetters, è considerato un classico dell’era del roots reggae. Al suo interno c’era Chase the Devil, brano in seguito campionato da artisti di diversi generi, dai Prodigy a Kanye West.
Nel 1999 il nostro Giuseppe “Jaka” Giacalone, curatore della trasmissione storica specializzata “Bongoman”, realizzava con lui questa bellissima intervista esclusiva negli studi della Satta Records a Roma. Cogliamo l’occasione per salutare l’artista appena scomparso ripubblicandola.
J- Buongiorno Mr. Max, tu sei stato uno dei primi cantanti giamaicani a raggiungere un grande successo internazionale, puoi raccontarci degli inizi della tua carriera ?
MR- Io ho iniziato nel 1965, per la precisione come cantante non professionista partecipando ad una gara musicale nel distretto di Clarendon in Giamaica dalla quale uscii vincitore e questo successo mi diede la spinta per lanciarmi nel panorama musicale dell’isola, così andai a Kingston in cerca di una possibilità per registrare qualcosa e passai due anni girando di studio in studio, ma mi buttavano sempre fuori dicendo che le mie canzoni non erano abbastanza forti e la mia voce non ancora perfetta, fino a quando non approdai alla Ken Lack Agencies da un tale Mr.Kainek che aveva un negozio in cui vendeva di tutto, dalle figurine alla verdura, e gestiva anche una etichetta discografica nel retrobottega di cui mi chiese di distribuire i dischi in giro per i negozi , e così a piedi portavo i dischi da negozio a negozio ed un giorno mi sentì cantare e mi disse “suona bene, ti darò un occasione!” , ed il primo disco che registrammo fu un successo, era il 1967 e si intitolava “I’ll buy you a raimbow to put on your finger” e fu il brano che diede inizio alla mia carriera come cantante, insieme a me all’epoca a provvedere ai cori c’erano Robbie Lyne Shakespeare ed un altro fratello che si chiamava Kenneth Night, ci chiamavamo “Emotions”, ma dopo un po’ il gruppo si sciolse ed io iniziai la mia carriera come cantante solista.
J- Hai lavorato per tanti anni fianco a fianco con il grande Lee Perry, producendo insieme molti classici della Reggae music, come era collaborare con lui ?
MR- Lee Perry è una personalità veramente interessante con cui lavorare, lui possiede la giusta vibrazione ed una energia inesauribile, ed è molto bravo anche a trovare le parole, lui recitava cose come “Tu ragazzo mio governerai il sole e glielo venderai”, o quando io iniziai a cantare “War inna Babylon and dread out deh” lui disse “No ci vuole un’altra parola invece di dread ed è Sipple out Deh” e quando io gli chiesi cosa significasse lui mi rispose che se c’è una guerra a Babilonia (war inna Babylon) allora è “sipple” cioè terribile là fuori, terrificante, c’è malvagità tutt’intorno, ed inieme convenimmo che era una idea fantastica e questo fu il titolo con cui il brano uscì sul mercato giamaicano; è questo il modo creativo in cui Lee Perry lavorava e proseguimmo a farlo anche dopo il 1969 che fu l’anno in cui pubblicai “Wet Dream” (Sogno bagnato) che nonostante venne censurata dalla BBC per il suo contenuto sessuale fu un grande successo in Inghilterra dove arrivò al decimo posto in classifica e fu l’unica canzone bandita dell’epoca a rimanere nelle charts e a diventare un hit incredibile in tutto il mondo, tanto che fino ad oggi quel brano ha venduto cinque milioni di copie.
J- Sai che la radio dove lavoro (Controradio/ Popolare Network) ha usato la tua “War inna Babylon” come sigla per i suoi reportage sulla guerra del golfo ? Quel brano è ancora di drammatica attualità ed ha un suono straordinariamente moderno, che ne pensi ?
MR- Bene, ora come ora non sono molto sorpreso, quella canzone è veramente tosta ed è interpretata così bene che non mi meraviglio se qualche persona intelligente ha deciso di usarla così e questa è una buona notizia per me; questo brano fu registrato all’incirca nel 1976 al leggendario Black Ark Studio di Lee Perry, era uno studio molto piccolo, se tu ci entravi non avresti mai detto che quel suono così potente ed originale veniva fuori da lì perché lui aveva una strumentazione molto piccola, direi in miniatura…
J- Registrava con un quattro piste…
MR- Si, ma la cosa incredibile è che invece che quattro tracce era come se ne usasse sedici, eccezionale no ? Noi registrammo così e durante la stessa “session” venne registrata anche “Police & Thieves” di Junior Marvin, avevamo dei musicisti davvero eccezionali all’epoca come Boris Gardiner al basso, Winston Wright, , e ricordo che in quel periodo Sly Dumbar era come uno studente in pieno apprendistato, stava seduto ai lati dello studio guardando Mikey Boo che suonava la batteria, alle mie sessions c’era il fior fiore dei musicisti, avevamo Ansel Collins alle tastiere, Tommy Mc.Coock degli Skatalites, in un brano cantò ai cori anche Marcia Griffiths, era una riunione eccezionale peccato che molti che suonarono in quel disco adesso sono morti, comunque le cose iniziarono a girare veramente bene fino a quando Lee Perry non slittò verso la sua nuova personalità, non so come né in che modo, ma qualcosa si interruppe bruscamente e lui dette fuoco allo studio, distrusse le registrazioni e bruciò tutto completamente, non so cosa andò storto ma successe qualcosa quando Bob Marley firmò con Chris Blackwell, a quel tempo si disse che il Pop andava facendosi furbo, io andai da una parte e lui dall’altra, e fu così che andò.
J- Hai lavorato anche con altri grandi produttori come Jah Shaka, come vi siete incontrati ?
MR- Bene, anche la storia dell’incontro con Jah Shaka è sorprendente. Jah Shaka venne in Giamaica e mi disse che aveva un progetto in testa ma non sapeva con chi realizzarlo. Io non lo conoscevo precedentemente, l’ho incontrato un giorno a casa di un amico e mi ha parlato del progetto ed immediatamente mi sono reso disponibile e lui mi ha subito proposto di arrangiare qualcosa insieme, e dopo poco registrammo “Far-I Captain of my ship” ci trovammo così bene insieme che pubblicammo anche un secondo album chiamato “Our Rights” prodotto da entrambi per la Jah Shaka music.
J- Che ci dici dell’album “Selassie I Forever” registrato insieme a Mafia & Fluxy ?
MR- “Selassie I Forever” è un album “concept” riguardo Selassie e l’intera questione che riguarda il mistero della sua morte, noi come Rasta non abbiamo mai visto il suo corpo quando è stato sepolto, abbiamo solo saputo che era morto ed era stato sepolto immediatamente il giorno dopo, quindi per noi questa è una faccenda sospetta, e per venire al punto noi ancora non crediamo che Sua Maestà è morto, così ho scritto un concept album per dire che Selassie è per sempre e che fin quando non verrà insediato un nuovo re sul trono dell’Etiopia io continuerò ad invocare Selassie, questo è il senso del disco. Mafia & Fluxy stavano per iniziare a lavorare con grandi artisti roots come Johnny Clarke, così io andai da loro in Giamaica e gli presentai l’idea dell’album che abbiamo prodotto insieme a metà e dato in distribuzione alla londinese Jet Star.
J- Qual è secondo te la parte più importante del messaggio di Rastafarii ?
MR- La parte più importante è per coloro che vogliono conoscere se stessi, conoscere i fatti e la giusta percezione di Rastafari. Rastafari è una cosa profonda che viene da dentro, non ci sono cerimoniali in Rastafari, è un modo di vivere e non una religione, e non è un culto perché non abbiamo chiese nel mondo dove andiamo la domenica o chicchessia, ma è lì quando un cuore e un altro legano e danno gioia come al concerto di Satta l’altra sera ( a Roma al Forte Prenestino) dove potevi sentire la vibrazione che c’era. Rasta è verità, rispetto e tutte le parole positive che un vocabolario può contenere, noi perpetuiamo il vero senso di essere un Rasta : essere in pace con se stessi, essere tutt’uno con la natura, tu non sei parte di un leone e roba così, tutto ciò è mondanità e viene da elementi distruttivi come quelli contenuti nel cattolicesimo e nella cristianità, tu non sei parte di tutto ciò, tu vieni dal profondo, e il profondo è sopra di te pronto ad accettarti ; Dio creò la terra e mise l’uomo sulla terra per governarla, quindi questa terra è mia ed io non la devo usare per fare l’idiota. Io sono in pace con me stesso così non ho bisogno di una pistola, se non sei in pace con te stesso allora sei in guerra con tutti, questo è Rasta, è un po’come il Buddismo dove tu dipendi da te stesso per la tua esistenza, non stai ad aspettare Gesù che metta il cibo sulla tua tavola o che il governo metta il cibo sulla tua tavola, sei tu che devi andare a piantare il cibo e portarlo a tavola, questo è Rasta e succede che quando trovi Rasta , trovi la pace in te stesso e diventi tutt’uno con la natura, così vivi eternamente, Rastafari !
J- Tu hai suonato al Forte Prenestino di Roma…raccontaci le tue impressioni.
MR- In quel posto la scorsa notte ho provato una straordinaria gioia ed un grande senso di libertà perché mi esibivo sopra un torrione sovrastante una antica prigione di cui potevo sentire la sofferenza e l’oppressione ma che ora è un relitto restituito alla vita, mi ha fatto sentire bene sapere di essere libero, mi sono sentito libero dalle cose di questo mondo, perché potevo vedere la distruzione che causa il male stando in mezzo ad una folla vociante, festosa e felice, questo è quello che ho provato perché so bene che il Forte Prenestino era un antica prigione dell’esercito e sembra proprio un campo di concentramento dove è scorso un sacco di sangue e vedere che ora è un posto di libertà e che le sue mura sono state demolite mi ha dato un grande senso di gioia, per una volta nella mia vita ho provato una grande libertà ed ho potuto sentire il calore della gente al concerto che era così elettrizzata , non ci siamo dimenticati che abbiamo una guerra proprio accanto alla nostra porta e per un minuto ci siamo sentiti liberi di protestare contro le bombe, così è stata un occasione di giubilo.
J- Con la tribù Acustica hai anche realizzato un album meraviglioso intitolato “In This Time” per i tipi dell’etichetta romana Satta Records, come ti sei trovato con loro ?
MR- Questo è stato un altro dei vertici della mia esperienza che ha rinfrescato la mia mente e la mia musica, mi sono posto in una situazione di vuoto mentale e mi sono sentito rinascere nell’ascoltare strumenti veri suonati da gente viva invece che sentire tutta quella roba satanica prodotta da quei tori sintetici, ho goduto nell’ ascoltare un suono acustico che fluiva così bene insieme al mio messaggio. Noi dobbiamo pensare alla vita invece che alla distruzione e questo è quello che sento perchè quando la musica non è sintetica o inseminata artificialmente provi un senso di gioia, perché la musica è una cosa che viene dal cuore e dall’anima di una persona e questo fa la differenza, così vi dico che la Tribù Acustica è una grande band, massimo rispetto, sono stato bene ogni minuto che passato con loro.
J- Parliamo della tua collaborazione con i Rolling Stones, da sempre innamorati della Reggae music.
MR- Fu all’incirca nel 1977, lo stesso anno in cui fecero l’album “Emotional Rescue” a cui partecipai registrando i cori ed ebbi i credits sull’album e questo fu molto buono per me, e poi Keith Richards suono’ le chitarre e produsse il mio album intitolato “Holding on my love to you” che fu registrato a New York negli studi di Jimi Hendix gli “Electric Ladyland” all’incirca nel 1979.
E’ stata davvero una buona esperienza per me perché i Rolling Stones sono sempre stati una delle mie rock n’ roll band preferite dai tempi in cui li vidi in concerto ad Hide Park a Londra nel 1969 (In memoria di Brian Jones ndt), io ero in Inghilterra all’epoca perché avevo “Wet Dream” in classifica ed andavo ai concerti di Bob Dylan e a quelli di tutti i grandi artisti dell’epoca, quindi puoi capire che la mia collaborazione con Keith Richards è stata eccezionale ed è stato un vero piacere per me venire coinvolto in quel progetto che uscì per l’etichetta Shanachie, un etichetta irlandese con sede nel New Jersey, che per la prima volta pubblicò un disco reggae, ed ebbe un grande successo di vendite soprattutto in Giappone dove spalancò le porte al mercato del Reggae.
J- Puoi parlarci della tua esperienza in America ?
MR- Nel 1976 arrivai a New York e partecipai ad un progetto per il teatro a Broadway chiamato “Reggae”, per il quale scrissi le canzoni e parte della coreografia musicale, e lì incontrai persone interessanti come Melvin Van Peebles, Philip Michael Thomas che era il protagonista dell’opera e tante altre, fu un successo ma dopo sette settimane di repliche dissero che il contenuto dei dialoghi e delle canzoni era troppo politico e violento, eravamo all’epoca dell’ascesa di Michael Manley in Giamaica ed era un periodo davvero difficile, e questa era una verità troppo dura per il pubblico di Broadway, così chiusero lo show e sciolsero la compagnia. Fu comunque un successo anche se per poco e passai uno dei miei migliori periodi negli Stati Uniti, avevo il mio nome che brillava su un enorme neon sopra un teatro della seconda strada.
Ho lavorato anche per una grande donna come Jacqueline Kennedy Onassis cantando per lei alla festa del suo compleanno, credo fosse il 1979, mi scritturarono perché all’epoca suonavo nel Greenwich Village con una band di nome “Jamala” in cui suonavano alcuni figli di ottimi musicisti come il figlio di Ernest Rangling alle tastiere, quello di Roland Alphonso alla batteria ed altri, mentre il manager della band era Danny Goldberg che poi divenne un grande produttore di Films ad Hollywood, furono grandi giorni e partecipai anche ai più importanti talk-shows dell’epoca come quello con Mike Douglas o con la NBC, fu uno straordinario periodo quello a New York ma non portò a niente perché la Island Records mi incatenò mani e piedi e mi lasciò lì nel mezzo, così tornai nella mia Repubblica delle banane a piantare la canapa, a fumare un po’ di erba ed a starmene un po’ tranquillo ed ora eccomi di nuovo qui ancora sulla breccia e pronto ad affrontare l’intera cosa, e vorrei ringraziarti per avermi dato il privilegio di raccontare questo ai miei fans in Italia che così possono farsi un idea reale di chi sono e da dove vengo. – ride –
