Al Teatro della Pergola, da domani a domenica 26 gennaio, Valerio Binasco rompe la tradizione con un “Arlecchino servitore di due padroni” di Carlo Goldoni che guarda più alla Commedia all’italiana che alla Commedia dell’arte, dando voce a un’umanità vecchio stampo, paesana e arcaica, che ha abitato il nostro mondo in bianco e nero.
«Goldoni è capace di una scrittura che è solo in apparenza di superficie – dice Binasco – se vado nei dettagli, non solo del testo, ma soprattutto delle ragioni che spingono i personaggi a dire quelle cose e non altre, scopro una ricchezza di toni interiori che ben si adatta a essere interpretata con sensibilità contemporanea».
Famelico, bugiardo, disperato e arraffone, l’Arlecchino “contemporaneo” di Valerio Binasco è un poveraccio, che sugli equivoci costruisce una specie di misero riscatto sociale. Con uno stile cinematografico, fatto di sintesi, unità di azione e suspense, la commedia della stravaganza diventa così un gioioso ritorno alle origini del teatro italiano e della sua grande tradizione comica, con un cast molto affiatato, composto da Fabrizio Contri, Michele Di Mauro, Lucio De Francesco, Denis Fasolo, Elena Gigliotti, Carolina Leporatti, Gianmaria Martini, Elisabetta Mazzullo, Ivan Zerbinati. Nel ruolo di Arlecchino, Natalino Balasso.
Una produzione del Teatro Stabile di Torino.
Dopo il Don Giovanni di Molière, Valerio Binasco, cinque volte premio Ubu, scrive: «A chi mi chiede: “come mai ancora Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni del 1745?” rispondo che i classici sono carichi di una forza inesauribile e l’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola».
«Ho sempre avvertito, all’interno di questo testo goldoniano – afferma Valerio Binasco ad Angela Consagra sul foglio di sala dello spettacolo – una potenzialità drammatica, pur essendo, al tempo stesso, davvero divertente. Arlecchino si inserisce nell’intreccio drammatico come una figura portatrice di caos e di volontaria comicità, ma non è difficile scovare in Goldoni un lato anche più amaro. Era un autore molto attento alla vita sociale del suo tempo – ragiona – di conseguenza, il suo lavoro confluisce anche nella nostra attualità contemporanea, perché io credo che l’uomo non sia poi tanto cambiato nel corso dei secoli».
Nel testo, il regista ha avvertito il richiamo di qualcosa che ha a che fare con un ‘certo tipo di umanità’, la cui anima travalica i limiti del teatro per il teatro e chiede di essere raccontata con maggiore realismo, con maggiore commozione. È il richiamo di una tipologia umana di vecchio stampo, l’Italia povera, ma bella, di sapore paesano e umilmente arcaico, che è rimasta attiva a lungo nel nostro Paese, sia sulla scena che nella vita reale. La ‘riforma’ goldoniana è responsabile secoli dopo della Commedia all’italiana, almeno tanto quanto è responsabile della progressiva scomparsa della Commedia dell’arte.
«Ho studiato con entusiasmo il personaggio di Arlecchino – interviene Binasco – salvo scoprire che mi stavo allontanando sempre più da una convenzione teatrale per avvicinarmi a una tipologia umana che non è nella realtà così artificiosa. Mi piacerebbe che in questo spettacolo, che pure risulta essere molto caratterizzato, perché la messinscena di Goldoni necessita sempre di caratteristi, tutti i caratteri rappresentati fosse possibile incontrarli anche nella vita reale e non soltanto sul palcoscenico. È praticamente tutta la vita – precisa – che quest’opera di Goldoni mi accompagna, trasformandosi insieme al mio gusto e alla mia voglia di raccontare la vita in un certo modo. Il risultato credo che sia malinconico, però fa anche ridere».
Così, in un tenero, eppur spietato, mondo piccolo borghese, uno strano servitore giunge a portare scompiglio durante una festa di nozze. A ben vedere, c’è da subito lo zampino del diavolo in questo inizio e la commedia, con le scene di Guido Fiorato, i costumi di Sandra Cardini, le luci di Pasquale Mari e le musiche Arturo Annecchino, parte a rovescio: il matrimonio è infatti sempre, e obbligatoriamente, la scena finale. Sono regole che valgono ancora. Così come la Tragedia ritualizza la separazione di un singolo (portatore di caos) dal resto del mondo, la Commedia celebra nel suo finale il rito di individui perduti in caotiche peripezie, che finalmente si ritrovano e si uniscono in matrimonio. Il matrimonio è il lieto fine che riavvicina gli uomini alla società e sancisce la vittoria degli uomini sulla confusione, sull’incertezza, sulla morte.
Alla porta di casa del rigido nucleo familiare di Pantalone già dal primo minuto bussa quindi il Caos, ovvero il diavolo delle commedie, e arriva Arlecchino. Una volta che quella porta è stata aperta, entreranno altri strani individui, alle prese con enormi problemi personali. Si direbbe una gara a chi ha il problema più grave: ognuno strepita le proprie ragioni e nessuno ne ha abbastanza da prevalere sugli altri o sul destino. Arlecchino è quindi un po’ come il Dio-Demone del teatro. Ma la sua provenienza dal diabolico mondo delle maschere, con tutti i suoi riti magico-comici, è ridotta a qualcosa che al massimo sarà simile a un povero diavolo. E gli vorremo tutti bene per questo.
«Abbiamo bisogno di storie, di persone da amare e anche di una estrema consolazione – conclude Binasco – il fatto è che dobbiamo essere consolati da dei mali che ci provochiamo da soli, ecco perché non ci meritiamo forse che il teatro sia anche una festa. E questo anche se alla fine credo che il mio compito, come artista, sia quello di non giudicare il mondo, ma semplicemente di raccontarlo».
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