Dal 12 al 17 marzo al Teatro Fabbricone di Prato, per meditare sul valore del cambiamento e sulla pratica della giustizia, sul male e sulla fragilità del bene, Anagoor rende omaggio al teatro del pensiero di Eschilo, e racconta l’epopea di un mondo in rivolta quale quello descritto ne l’Orestea utilizzando le tecniche sceniche della visione, del canto e dell’orazione.
I Greci hanno inventato l’idea che l’essere finisca nel niente, sprofondando per sempre l’Occidente nel dolore. La filosofia nasce per portare rimedio a questo dolore che sta alla base dell’Occidente: per noi ogni cosa che muta transita per una fine assoluta, un annientamento totale che ci toglie il fiato e ci rende folli. La conseguenza tremenda di questa follia è che ogni esistenza percepisce la minaccia dell’annientamento ed è pronta a osare tutto.
Eschilo, con il suo teatro che inizialmente è pratica filosofica, è il primo nella storia a dire no per mezzo del pensiero, un no assoluto a questo dolore.
Oggi a noi mancano categorie in grado di farci percepire la scossa del sacro con cui il cittadino ateniese assisteva alle rappresentazioni tragiche.
Anagoor affronta l’Orestea di Eschilo a partire da questa distanza incommensurabile.
Il re di Argo torna dalla guerra vittorioso e carico di ricchezze. L’Orestea si apre con un capitolo tremendo, l’Agamennone, che non nasconde le colpe di un potere che per conseguire i propri obiettivi non evita di sacrificare i beni più preziosi, la felicità, gli affetti più cari.
Il trono di Argo si erge su un cumulo di cadaveri di figli: il cumulo delle ricchezze ricavate dalla conquista è prezzo pagato con il sangue. Su questo coacervo di violenza pregressa e continua, che vede nello scambio di valori (ori/esistenze) il suo primo motore, l’errore primigenio, si innesta una catena di episodi cruenti dettati della cultura della vendetta e che, esplodendo furiosamente in seno alla famiglia, formano la trama dolorosa dell’Orestea: un padre uccide la figlia, una sposa uccide lo sposo, un figlio uccide la madre.
L’Occidente, di cui questa trilogia costituisce una pietra miliare, poggia sulla frana di una casa. Un precipizio che per essere arrestato richiede una sospensione straordinaria, un enorme sforzo di civiltà, un atto divino o di pensiero: il culmine del pensiero, o Zeus, è il vertice a cui aggrapparsi nel vortice della follia.
Il teatro di Eschilo è un teatro del pensiero, anello di congiunzione tra mito, festa ed esercizio della filosofia. Teatro del pensiero come filosofia pratica e collettiva, capace come un giano bifronte di guardare dalla sua posizione aurorale tanto alla notte che precede il sorgere della città, quanto alle contraddizioni sottese alla nascita della politica. Un guardare insieme a occhi aperti l’orrore, l’errore dello scambio dei valori, l’inconciliabilità delle scelte, il sacro che svela le strettoie.
Nel poeta dell’Orestea convivono una radicata fede in un ordine luminoso e la comprensione tremenda dei contrasti della vita: Eschilo è il titano che con sforzo tellurico muove guerra alla montagna olimpica, ma contemporaneamente anche il dio sorridente che stende il palmo come argine al caos: così il dramma è insieme velo e rivelazione del vuoto del mondo.
Maschile e femminile, padri e figli, materno e generazioni, uomini e divinità, mondo di sopra e mondo di sotto, potere e convivenza civile, fortuna materiale e gioie reali, felicità e fragilità del bene, violenza, colpa, sofferenza, e conoscenza hanno, a monte, l’irrisolto orrore per il “non c’è più”, la morte, il non-essere, a valle, la necessità di ripensare al valore del cambiamento e alla pratica della giustizia.
Scritta in una fase cruciale di rivolgimenti politici, l’Orestea è infatti anche la storia di un mondo in rivolta. Di fronte a nodi inestricabili, in assenza di possibili soluzioni, la rivoluzione, che pretende un taglio netto col passato, la tabula rasa, è atto desiderato, sentito come necessario, spesso praticato con inaudita violenza eppure, paradossalmente, capace, nella cecità della furia, di preparare soltanto le condizioni per la rigenerazione del vecchio. Ciò che serve è una conversione collettiva, moto che nasce dall’interno, e i cui esiti non si danno come eterni.
Il testo eschileo è inizialmente assunto nella sua integralità, tradotto espressamente per questa creazione. Tuttavia i nuclei fondamentali del testo sono condensati ed espansi con linguaggi e tecniche cari ad Anagoor (la visione, il canto, l’orazione), fino a tradirlo, affiancandolo o sostituendolo con un arcipelago intertestuale che complica l’orizzonte della meditazione sul male e sulla fragilità del bene, e sulla lingua che li descrive.
Sullo sfondo il discorso ontologico che è l’impalcatura di pensiero di tutto l’Occidente, la sua intima contraddizione e la sua pericolosità; in primo piano la fiducia in una parola persuasiva capace di incanto, che dissolva come nebbia al sole, o domi dolcemente, il dolore che proviene dalla fede assoluta che l’essere finisca nel niente.
INFO:
Teatro Fabbricone, via Ferdinando Targetti, 10/8, 59100 Prato
0574 690962