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Disco della Settimana: Motta “Vivere o Morire”

Anticipato da “Ed è quasi come essere felice” e “La nostra ultima canzone“ (già tra i brani italiani più trasmessi), è uscito su etichetta Sugar “Vivere o Morire”, il nuovo album del cantautore pisano Francesco Motta.

“Vivere o Morire”, disponibile in cd, vinile, su Spotify e tutte le piattaforme digitali, è il secondo album del polistrumentista e cantautore toscano che ha esordito con “La fine dei vent’anni”, TARGA TENCO per la miglior Opera Prima.

La storia di Francesco Motta sì è più volte intrecciata con quella di Controradio: dagli esordi con i Criminal Jokers, poi tra i 108 selezionati per il progetto Toscana100Band, infine ospite della grande finale sold out del Rock Contest 2016 (quella di Manitoba, Ros e Handlogic). è per questo con grande piacere che eleggiamo anche questo “Vivere o Morire” a nostro Album della Settimana.

“Vivere o Morire” è stato prodotto, registrato e mixato tra Roma, New York e Milano, da Francesco Motta e Taketo Gohara. “Il segreto di questo disco è che non ha segreti e per scrivere le nuove canzoni ho messo il mio cuore sul tavolo. Questo lavoro è la perfetta fotografia di quello che sono oggi – ha spiegato Francesco Motta da Livorno – perché mi sono raccontato nei miei tanti modi. E’ il lavoro che mi ha fatto scoprire la sintesi, non so se in termini di maturità o consapevolezza, grazie alla quale ho messo nel disco niente di più rispetto a quello che ci andava messo”. L’album vede la collaborazione di Pacifico, ma c’è anche lo zampino di Riccardo Sinigallia, vero e proprio mentore di Motta e questa volta nei panni di produttore, oltre a quello dell’ingegnere del suono Taketo Gohara con il quale la voce delle nuove ‘Quello che siamo diventati’, ‘Ed è quasi come essere felice’ e tutte le altre, è andato a New York per registrare negli studi dove un tempo era di casa Jimi Hendrix. “Dopo dieci anni di gavetta vera – ha detto Motta – ho avuto la possibilità di lavorare in un certo modo e di incontrare alcuni personaggi importanti per questo lavoro da studio”

Subito dopo l’uscita del disco, Motta sarà impegnato con una serie di incontri con i fan che toccheranno le principali città italiane (l’appuntamento toscano è per il 10 Aprile alla Feltrinelli RED di Piazza della Repubblica, Firenze ore 18:30), la data toscana del tour live è invece fissata per il 29 maggio all’OBIHALL di Firenze.

Ma intanto diamo una veloce occhiata alle reazioni della stampa specializzata italiana. Così se ne parla su Rockol: “A guardarlo così, con quel volto dall’aria rude e severa, non lo diresti mai. Ma sotto sotto Motta è un vero romanticone. Soprattutto in questo periodo: è innamoratissimo dell’attrice Carolina Crescentini, alla quale è legato sentimentalmente da qualche mese, e per sua stessa ammissione nelle canzoni che ha scritto negli ultimi tempi l’amore gioca un ruolo di primo piano. “Vivere o morire” è un album sentimentale, nella migliore accezione del termine. È un disco che parla di sentimenti e di emozioni, che ci racconta Motta più di quanto non avesse fatto il precedente “La fine dei vent’anni”: “Ho messo il mio cuore sul tavolo”, dice lui. “Vivere o morire? Aver paura di tuffarsi e di lasciarsi andare”, canta l’ex Criminal Jokers nel ritornello della canzone che dà il titolo all’intero album. È il verso più emblematico del disco, forse: “Vivere o morire” è un inno a buttarsi nella mischia, a perdere il controllo. La naturale conseguenza di “La fine dei vent’anni”, insomma: lì Motta provava a mettere da parte le sue turbe e le sue inquietudini, ma c’era sempre qualcosa che lo tratteneva, che non gli permetteva di smarcarsi del tutto dall’irrequietezza. “Sarebbe bello finire così, lasciare tutto e godersi l’inganno”, cantava in “Del tempo che passa la felicità”. Adesso si lascia andare e mostra il dito medio ai demoni, complice anche l’aiuto di Pacifico, che ha collaborato alla stesura dei testi di buona parte delle nuove canzoni: “Mi ha fatto da psicanalista, ha avuto un ruolo maieutico. Mi sono ritrovato a scrivere di cose che non avrei mai tirato fuori senza di lui. Ho visto il mio passato in maniera più lucida e consapevole”, racconta il cantautore toscano. In confronto a “La fine dei vent’anni”, “Vivere o morire” è un album meno rumoroso: se già con l’album del 2016 Motta aveva fatto un bel passo in avanti dal punto di vista strettamente sonoro, almeno rispetto al punk rock dei Criminal Jokers (la produzione era di Riccardo Sinigallia, uno che con i suoni ci sa fare – ascoltate, se non lo avete già fatto, “Musiche ribelli” di Luca Carboni o “Non erano fiori” di Coez, tra i suoi lavori più recenti), stavolta il passo è ancora più lungo. Anche se Sinigallia è rimasto di lato e il suo ruolo se lo sono diviso Motta e Taketo Gohara. I suoni sono limpidi, cristallini. Il cantautore ha raccontato di aver lavorato molto per sottrazione: non ha messo di più di quel che doveva mettere. Canzoni come “Quello che siamo diventati”, “Vivere o morire”, “La nostra ultima canzone”, “La prima volta” (impreziosita pure da un quartetto d’archi) si prestano benissimo ad essere riproposte dal vivo semplicemente chitarra e voce: l’essenziale. “La fine dei vent’anni” era il racconto onesto di un momento di passaggio critico, non solo anagrafico ma anche artistico, con cui Motta delimitava il passato (l’esperienza come fonico di palco, i Criminal Jokers, il punk rock) dal presente (la carriera solista). Le canzoni di “Vivere o morire” rappresentano un sequel perfetto di quel racconto, che continua ad emozionare soprattutto per il modo con cui il loro autore – per citare una bella descrizione che la sua discografica, Caterina Caselli, ha fatto di lui – esibisce le sue fragilità (l’ultima traccia, “Mi parli di te”, una lettera scritta a suo papà, è un vero colpo al cuore). C’è molta urgenza espressiva, dentro questo disco, il desiderio di farsi sentire, di far sentire la propria voce. Ma senza scalpitare, senza urlare. Semplicemente, mettendo il cuore sul tavolo.

Così su Sentireascoltare:La fine dei vent’anni, il disco dell’esordio solista che due anni fa è valso a Francesco Motta la Targa Tenco e un’affermazione nazionale, si chiudeva fissando un punto con la conclusiva Abbiamo vinto un’altra guerra, ultimo residuale di una battaglia tutta personale condotta sulla propria esistenza giunta ad un momento cruciale tra interrogativi, incertezze e un futuro precario e indistinguibile. Vivere o morire riparte esattamente da lì ma alterando completamente la prospettiva, l’approccio: stavolta il cantautore toscano si concentra su sé stesso, operando un’autoanalisi profonda e stratificata in cui ci sono scelte da prendere e bivi da imboccare, senza mezze misure né compromessi, solo acqua o fuoco. A fare da gancio Ed è quasi come essere felice, utile a tracciare una linea di confine che musicalmente c’entra poco con il resto dell’album, ma che apre alla perfezione il nuovo orizzonte buttandoci dentro un vortice incendiario, un frullatore in crescendo alimentato dalle percussioni di Mauro Refosco (Atoms for Peace, Red Hot Chili Peppers). Al ritorno ritroviamo l’arpeggio acustico e sognante di Quello che siamo diventati che rimbalza sull’io pacificato di chi la sua decisione l’ha finalmente presa e sta guardando già altrove («è arrivata l’ora di restare»). La lunga riflessione che il cantautore compie nella canzone che dà il titolo all’album è il manifesto programmatico di una filosofia di vita che anche a costo di sbagliare, di fallire, ha bisogno del coraggio e della vitalità di una presa di posizione chiara e netta, a cominciare dall’amore (è di qualche mese la notizia comunicata con una foto su Instagram della relazione con l’attrice romana Carolina Crescentini), un tema che ritorna prepotente e ingombrante a più riprese nel disco, con il riflesso dell’urgenza di chiudere una storia e iniziarne un’altra, come ben delinea in Per amore e basta. Ha scelto di fare (quasi) tutto da solo, Motta, per questo secondo album; non c’è stavolta con lui Riccardo Sinigallia a produrre il disco (presente comunque insieme a Pacifico come autore di La prima volta), e così il Nostro si è diviso tra le varie strumentazioni allo storico Brooklin Recording Studio di New York affidando i suoni alle mani di Taketo Gohara, e in termini di arrangiamenti le differenze si percepiscono. Se La fine dei vent’anni vantava una versatilità di soluzioni pop che faceva brillare il suo cantautorato sbilenco tra atmosfere diverse, il mood di Vivere o morire è più costante, omogeneo e asciutto, ricordandoci lo spirito dei tempi busker con i Criminal Jokers. Ancora un vibrante fingerpicking, stavolta sostenuto da claps, in La nostra ultima canzone, aggiunge un altro punto su una storia d’amore giunta alla conclusione e con cui il cantautore fa i conti in maniera diretta, vis-à-vis, proseguendo in una Chissà dove sarai con la sua voce determinata e tagliente a fare il paio a un testo oscenamente diretto, sincero e franco, e con gli archi che arrivano in soccorso a darci ossigeno e ad ampliare il respiro del brano. Un’ampiezza che viene confermata nei fiati della già citata Per amore e basta o nei ritmi tribali di una E poi ci pensi un po’ che aggiunge un pizzico di leggerezza ad un lavoro fortemente malinconico e introspettivo. La chiusura è affidata ad una narrazione familiare ancora una volta affrontata senza reticenze e mettendo a nudo tutto sé stesso, a cominciare dal linguaggio intimo utilizzato nel rivolgersi al padre. Vivere o morire è il Rimmel di Motta, un disco che probabilmente piacerà meno del suo predecessore, più difficile e impegnativo da digerire, forse ancor di più per chi l’ha scritto che per chi l’ascolta. Ma è un disco che conferma lo spessore, la qualità e la bontà di un autore che in barba a mode e tendenze ora in voga e domani chissà, ci conferma che un altro cantautorato italiano è ancora possibile ed è in ottima forma.”

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