Roger Daltrey ha appena pubblicato un nuovo album solista, dal titolo “As Long As I Have You”. Brani originali e qualche cover per un progetto che il frontman 74enne degli Who ha descritto come “un ritorno agli inizi, ad un tempo in cui eravamo un gruppo di adolescenti e suonavamo musica soul per piccole folle negli androni delle chiese”.
Tra le cover interpretate da Daltrey “Into My Arms” di Nick Cave, “You Haven’t Done Nothing” di Stevie Wonder, “How Far” di Stephen Stills e la title track originariamente registrata da Garnet Mimms nel 1964, anno in cui Daltrey, Townshend, Entwistle e Moon decisero di cambiare il nome del gruppo da The High Numbers a The Who.
Così ha accolto il disco Rockol, il primo ad occuparsi dell’album:
L’essere rocker (o qualcosa di simile, perdonate la definizione tagliata con l’accetta) con oltre 50 anni di esperienza sulle spalle ha un vantaggio non disprezzabile: un bagaglio di amicizie e conoscenze che si possono coinvolgere facilmente quando si fa una puntatina in studio. Ed è proprio quello che il buon Daltrey ha fatto per questo suo nuovo lavoro solista.
Roger per “As Long As I Have You” ha convinto a unirsi alle session il quasi inseparabile compare Pete Townshend e Mick Talbot (Style Council, Merton Parkas, Dexy’s Midnight Runners…): e scusate se è poco. Con loro in squadra ha assemblato quello che è in gran parte un album di cover, ma – per fortuna – un album di cover con un senso differente dal più tipico “mettiamo insieme una decina di pezzi, una cosa veloce che devo pagare l’affitto del monolocale al mare”.
Già, perché – fatta eccezione per una manciata di pezzi originali (“Certified Rose” e la ballata “Always Heading Home”) – questo disco è una sorta di omaggio di Roger alle proprie radici soul, ma non solo: anche ad artisti che lo hanno toccato (si veda la sua struggente versione di “Into My Arms”, originariamente di Nick Cave).
Il senso dell’operazione è ben riassunto dal protagonista stesso, che spiega:
“Questo è un ritorno alle origini, a prima che Pete [Townshend] iniziasse a scrivere le nostre canzoni, quando eravamo una teenage band che suonava musica soul per poche persone in una chiesa. Questo è quello che eravamo, una soul band. Adesso posso suonare il soul con tutta l’esperienza di cui c’è bisogno per farlo. La vita ti insegna cosa è il soul. Ho sempre cantato dal mio cuore ma quando hai 19 anni non hai abbastanza esperienza di vita, non hai ancora passato tutti i traumi, i problemi che fronteggi quando arrivi alla mia età. Quando canti metti nelle canzoni tutte le ferite emotive della vita, queste emozioni entrano nella tua voce. Senti il dolore di un amore perso. Lo senti e lo canti e questo è il soul. Per molto tempo ho voluto tornare indietro verso la semplicità di queste canzoni, per mostrare alle persone la mia voce, una voce che non avevano mai sentito prima. Credevo fosse arrivato il momento giusto. È qui che sono, guardo indietro a quel periodo, ripercorro tutti quegli anni per arrivare qui, dove sono adesso, in un momento pieno di profondità”.
Belle parole. E andando più a fondo, ossia puntando alla musica, l’impressione è decisamente positiva. I 74 anni di Daltrey sono ben portati a livello artistico e non solo fisico: è così che l’ascolto risulta molto piacevole in più di un frangente. Forse, e questo pare un paradosso, gli episodi meno elettrizzanti sono i due originali – ma solo per il fatto di essere accostati a classici con cui è difficile competere (specie, poi, dopo il trattamento di rilettura Daltrey/Townshend). Ma non c’è proprio di che lamentarsi. Anzi.