Site icon www.controradio.it

Il Covid come misura della qualità dell’informazione

Quando il numero dei contagi in Amazzonia impatta direttamente sull’opinione pubblica della Valle D’Aosta… c’è qualcosa che non quadra.

Il contributo di Domenico Guarino alla riflessione su Covid/giornalismo e democrazia, pubblicato nell’ambito del progetto Pillole di Ottimismo

Quella del Sars CoV -2 è la prima pandemia globalizzata. Il che vuol dire che è la prima pandemia comunicata in tempo reale attraverso i media di tutto il mondo. Una pandemia in cui quindi la questione del come, quando, e perché si danno le notizie è diventata cruciale tanto quanto la ricerca scientifica, le valutazioni epidemiologiche, le sperimentazioni mediche. La mole di informazioni che sono circolate e stanno circolando (va detto, soprattutto nel nostro Paese) è tale e tanta da superare il concetto stesso di infodemia che era stato utilizzato ai tempi della Sars, ovvero quella moltiplicazione bulimica dei contenuti informativi spesso contraddittori e non di rado privi del necessario vaglio scientifico che aveva in qualche modo affiancato l’epidemia.
Nel caso del Covid infatti il procedere della pandemia, le scelte dei governi, la pratica medico-clinica, si sono interconnesse sin da subito, in maniera inestricabile e per la prima volta realmente globale, con le questioni mediatiche e dunque politiche. Per la prima volta il numero dei contagi in Amazzonia ha impattato direttamente sull’opinione pubblica della Valle D’Aosta o della Corea del Sud, o della Polonia.
Si pensi, per rimanere al nostro Paese, alla vicenda ultima delle mascherine all’aperto: nessuna evidenza scientifica a favore di una soluzione, che però la politica prende anche in riferimento ad una spinta mediatica che precede, accompagna, e finalizza il provvedimento; da una parte sollecitando, dall’altra indirizzando il disorientamento dell’opinione pubblica di fronte alla ripresa dei contagi, ed alle paure collegate.
Ma che tipo di informazione abbiamo avuto in questi mesi?
Beh, se il pluralismo e indipendenza sono i due concetti cardine intorno ai quali si può sviluppare una corretta analisi dello stato di salute del giornalismo e della comunicazione, possiamo tranquillamente affermare che il quadro emergente non è per nulla rassicurante. Salvo rarissime eccezioni, la stampa italiana, intendendo con questo termine il complesso del sistema mediatico nel suo insieme, si è omologata ad una visione ansiogena ed in alcuni casi ‘terroristica’ (atta a generare terrore) della vicenda pandemica. La narrazione ha privilegiato una visione quasi esclusivamente pessimistica di quanto accadeva ed accade, il racconto prodotto è in massima parte univoco, le fonti accreditate sono quasi sempre le stesse, le voci critiche vengono isolate se non silenziate, le vicende interpretate per dar corso ad una descrizione catastrofista dei fatti e degli eventi, che tendenzialmente accompagna e blandisce le paure più recondite delle persone.
Per quale motivo venga fatto questo sarà questione che toccherà agli storici del giornalismo dirimere nel prossimo futuro.
Oggi possiamo solo constatare che questo avviene, è avvenuto, costantemente ed in maniera addirittura ossessiva. La linea rigorista è l’unica che passa, salvo rarissime eccezioni. Le voci discordanti sono poche ed isolate dal coro. La scelta, la gerachizzazione, l’’impaginazione’ delle notizie privilegia un racconto a tinte fosche, dietro cui spesso si cela anche la convizione che ‘il terrore vende meglio’ della rassicurazione. Oltre a quell’intreccio tipicamente italiano tra editoria, industria (anche farmaceutica) e politica (1). Per tacere della preparazione e della formazione dei giornalisti che, di fronte a sfide sempre più complesse e a saperi sempre più parcellizzati, mostra tutta la sua debolezza.
Ma siccome, come dicevamo, l’analisi compressiva delle motivazioni, palesi ed occulte, delle sollecitazioni anche economiche oltre che culturali e politiche, che stanno dietro a queste scelte, necessita di un’analisi più approfondita, e dilazionata nel tempo, il giudizio che un giornalista può dare oggi rispetto a quanto accade e viene prodotto nell’universo mediatico, non può che basarsi su quelle che sono le regole fondamentali del ‘mestiere’, espresse nelle leggi di riferimento e nella Costituzione, e codificate nella deontologia professionale.
In primo luogo il giornalista, dice la Legge istitutiva dell’OdG (69/1963) ( 2) ha ‘diritto insopprimibile e dovere inderogabile’ di cronaca e di critica. E’ stato rispetto questo diritto/dovere? Solo molto parzialmente, come è evidente. Nel senso che la cronaca è stata orientata quasi esclusivamente alla ricerca delle notizie ‘negative’ (ad esempio la scelta di comunicare in maniera acritica quotidianamente i contagi, i ricoveri e le morti, MA NON le guarigioni) ed ha tralasciato gli aspetti più critici della vicenda pandemica.
Per dirne una: non si sono viste particolari analisi, approfondimenti, inchieste, sul perché le decisioni del Governo siano – come dimostrano i verbali desecretati – andate spesso, se non sempre, in direzione diversa o addirittura opposta a quella indicata dal CTS (3) . Eppure siamo di fronte ad una delle vicende più tragiche della storia recente del nostro Paese, con oltre 36mila vittime, un calo del PIL pari almeno al 9%, un aumento del Debito Pubblico fino al 155% ed un deficit che dovrebbe attestarsi al 10%, con la possibilità di perdere fino ad un milione di posti di lavoro (4).
La critica è andata invece solo verso chi in qualche modo ha osato mettere in discussione la narrazione mainstream. Emblematico a questo proposito il trattamento riservato alla Svezia ed a tutti i Paesi che hanno scelto strategie differenti da quelle chiusuriste ad oltranza: poche notizie, elaborate esclusivamente in chiave negativizzante, e tese a rafforzare la narrazione ‘patriottica’ di un Paese, l’Italia, in cui tutto era stato fatto nel migliore dei modi. Per fare un esempio, è stata citata ripetutamente l’autocritica parziale dell’epidemiologo capo della Svezia Anders Tegnell riguardo alla strategia adottata dal paese scandinavo, ma in nessun organo di stampa italiano è stata diffusa la notizia dell’autocritica fatta dalla prima ministra Erna Solberg, la quale ha dichiarato che alcune delle misure prese erano state inutili e che la Svezia, ad esempio sulle scuole aveva fatto meglio della Norvegia (5), ovvero del Paese che solitamente viene messo in contrapposizione alla Svezia per quanto riguarda il numero delle vittime in Paesi affini. Dimenticando, per altro, che tra la Norvegia e la Svezia sussistono le stesse differenze, di quelle che intercorrono, ad esempio, tra Lombardia e Molise, o tra Sicilia e Trentino che pure, nella versione italica del rock down, hanno dovuto seguire le medesime regole.
Secondo la legge il giornalista deve poi correggere le notizie inesatte, ed anche in questo caso abbiamo esempi eclatanti di informazioni date in pasto ai media senza essere verificate: dalle ‘condizioni gravi’ di Briatore all’atto del ricovero (6), agli studi non verificati sulla persistenza del virus ‘nell’aria’ (7), fino a morti o terapie intensive attribuite al covid quando in realtà erano state causate da altro . Allo stesso modo, le caratteristiche dei vari lockdown sono state spesso spiegate in maniera sommaria, non verificata, ed alcune volte stravolgendo le informazioni. Sempre per rimanere in tema: quasi nessuno, ad esempio, ha raccontato esattamente che tipo di restrizioni avessero i cittadini olandesi o quelli finlandesi o anche semplicemente i nostri vicini svizzeri. E a nessuno è venuto in mente di capire e raccontare che dietro il generico termine di lockdown si celavano e si celano in realtà mille strategie differenti. Forse perché la tematizzazione avrebbe essa stesa messo in crisi il mito del ‘modello italiano’ di successo.
Infine, secondo la legge, il giornalista deve cercare la ‘verità sostanziale’. Un concetto apparentemente molto aleatorio, che possiamo tuttavia riassumere come quella verità accreditabile, a seguito di un lavoro diligente di analisi e di confronto delle fonti, nel tempo compatibile con l’emissione, la pubblicazione, la messa in onda etc. Di fatto quello che abbiamo visto in questi mesi, e che tutt’ora vediamo, è quasi sempre una ripetizione parossistica e continua delle informazioni ufficiali diramate dalle autorità. Manca quasi completamente quel lavoro di inchiesta e di analisi che sarebbe alla base del giornalismo. Si parte dalle caratteristiche delle persone ricoverate, o defunte: età, condizioni mediche, situazione clinica, provenienza e via dicendo . Oppure la tendenza a sbattere in pagina qualsiasi notizia arrivi dai laboratori, prescindendo dal lungo percorso di validazione e presentando i risultati come verità assodata (9).
Di fatto l’informazione è stata trasformata in semplice comunicazione delle fonti ufficiali; una sorta di ‘bollettinizzazione’ del ruolo dell’informazione, avendo per lo più i giornalisti abdicato al lavoro di verifica, di confronto, controcanto, che dovrebbe essere parte se non preminente, quantomeno essenziale, del loro lavoro.
Rispetto alle informazioni mediche e scientifiche il giornalista ha poi delle regole chiare da seguire (10). Tra queste le più importanti sono l’affidarsi a fonti accreditate, la tutela della privacy del malato, l’evitare toni sensazionalistici: tutti principi che in questi mesi sono stati completamente disattesi, o assunti in maniera del tutto parziale.
Dalle fonti accreditate sono state ad esempio regolarmente espunte, tranne rarissime eccezioni, le voci non allineate alla versione ufficiale, quelle critiche, e questo indipendentemente dal curriculum accademico (si vedano le recenti decisioni assunte dalla Regione Campania inerenti la comunicazione tra medici e media).
Riguardo alla tutela della privacy (si pensi al caso Briatore succitato, o a quello di Berlusconi (11), per rimanere sulla punta di un iceberg enorme in cui le storie locali di persone sbattute spesso in maniera scorretta in prima pagina si contano oramai a centinaia) le falle sono state enormi ed in alcuni casi molto discutibili. Sui toni sensazionalistici basti guardare l’enfasi con cui le notizie vengono comunicate, la reiterazione ossessiva di immagini ‘eccessivamente icastiche’ come quelle delle bare di Bergamo e dei camion militari. Tutti elementi tesi ad instillare negli occhi e nelle menti del pubblico uno stato di tensione continuo.
Ciò cui abbiamo assistito e cui stiamo assistendo è dunque un pessimo segnale per la qualità della nostra informazione.
Quelli che abbiamo davanti saranno mesi presumibilmente ancora più difficili, perché all’endemizzazione del virus, si accompagnerà l’adozione di misure draconiane, ed il rischio che la tensione sociale aumenti anche in virtù di una crisi economica per ora sopita dal blocco dei licenziamenti e dai provvedimenti ‘tampone’ (mai termine fu più appropriato) che sono stati adottati.
Per questo sarà sempre più necessario proteggere, incoraggiare e valorizzare le poche voci che in questi mesi hanno cercato quantomeno di tener accesa una seppur flebile fiammella critica rispetto all’uniformità della narrazione presentata dal mainstream quasi nella sua interezza. Compito gravoso ma necessario che per altro coincide significativamente con l’essenza stessa della scienza, che si nutre e progredisce attraverso una dialettica continua, in cui la questione della negazione è altrettanto fondamentale quanto quella della conferma.
Un’informazione indipendente tuttavia non può esistere senza un pubblico indipendente. Un pubblico cioè che ne avverta l’importanza e l’esigenza, e che sia dunque in grado di richiederla e supportarla.
E’ per questo che la questione della qualità dell’informazione sarà strettamente connessa con quella della qualità del dibattito scientifico, politico, ed in ultima analisi, democratico.
Exit mobile version