Tutto quello che hai visto, ricordalo, perché tutto quel che dimentichi ritorna a volare nel vento (canto Navajo).
Ritorno alla vita quotidiana, piena di nostalgia del bellissimo viaggio appena concluso. Di fronte agli immensi spazi americani, tutto mi sembra piccolo. Mi mancano i cirri bianchi nei cieli a perdita d’occhio sui deserti dell’Arizona, le scure conifere giganti delle Montagne Rocciose, il serpeggiare del Colorado in fondo a canyons profondissimi, con gli insediamenti pueblos nascosti nelle anse delle pareti inaccessibili. Ma mi sono rimaste nel cuore soprattutto le persone. Le popolazioni native, così resilienti, fiere e gentili, dopo aver subito l’espropriazione delle loro terre, dei loro averi e della loro cultura. Siamo entrati nelle loro terre, una volta definite “riserve”, oggi parchi naturali di incomparabile bellezza, che gestiscono e di cui proteggono l’integrità . Quella natura immensa e grandiosa è sempre stata la loro casa, in una simbiosi equilibrata fra uomo e territorio. Ho provato amarezza nel museo di Window Rock, la capitale della Navajo Country, all’ombra della iconica montagna forata, nel vedere quanto spazio viene dedicato dalla comunità Navajo alla narrazione della Long Walk, la marcia della morte, nella quale il Popolo della Terra è stato costretto a trascinarsi per più di 700 chilometri da quel Kit Carson, il cinico colonnello principale responsabile della devastazione dello splendido Canyon de Chelly e della capitolazione del Popolo della terra per fame e sete.
Un ricordo che ancora oggi è vivo fra la popolazione ed è rappresentato nel museo in modo interattivo, con centinaia di bigliettini che gli eredi di quelle famiglie, nipoti o bisnipoti, attaccano alle pareti col il nome dei propri nonni o bisnonni che erano stati protagonisti di quella immane tragedia. E mi ha colpito l’intera sala dedicata al Trattato del 1868, esposto in originale, foglio dopo foglio e letto parola per parola, a ciclo continuo, da una voce narrante in lingua navajo, perché quel momento non venga mai dimenticato. Perché con quel Trattato finì la persecuzione nei loro confronti ed i Navajos poterono finalmente ritornare nelle loro terre. E le sale riservate alle foto dei veterani navajo della Seconda guerra mondiale ed alle attrezzature walkie-talkie con le quali i nativi-soldati trasmettevano le comunicazioni belliche, nel loro linguaggio criptico, incomprensibile per il nemico. Si sente l’orgoglio identitario, di appartenenza ad una stirpe antica e nello stesso tempo l’orgoglio per aver dato un importante contributo al Grande Paese, dal quale pure avevano ricevuto tanto male in passato.
E che suggestione ispirano le riproduzioni artistiche dei miti fondativi, la Prima Donna ed il Primo Uomo, che erano convinti di poter vivere separati sulle rive opposte di un grande fiume, fino a che si resero conto di soffrire e di non poter vivere gli uni senza le altre, di dover trovare insieme un equilibrio. Non dimentichiamoci che le donne navajo erano le padrone delle pecore e gli uomini dei cavalli. E la società era matrilineare e dopo il matrimonio erano i giovani Navajo a trasferirsi a casa delle suocere… Il mio mito preferito rimane la Donna Ragno, che abita in cima alla Spider Rock ed insegna ai popoli l’arte della tessitura, la quale rappresenta la Madre Natura, protettrice degli umani, “vecchia come il tempo, giovane come l’eternità ”, benevola ma anche severa con i bambini cattivi, che cattura con la sua rete e divora, in cima alle sue torri di roccia. E che secondo l’antropologa femminista Clarissa Pinkola Estès rappresenta l’archetipo della Donna Selvaggia, colei che, fra le figure di donne “che corrono con i lupi” delle varie culture tribali di tutto il mondo, tesse il fato degli esseri umani e degli animali, delle piante e delle pietre. Che tiene insieme natura ed umanità , la parte razionale e l’”io selvaggio” che alberga nascosto dentro di noi. E la sua rete è rappresentata in modo simbolico dagli “acchiappasogni”, come quello che si è “fatto trovare” da me in terra, perduto da chissà chi, nella plaza di Albuquerque, come un segno del destino.
E mi sono rimasti nel cuore le giovani Navajos, sorridenti e gentili, che lavorano nella gestione dei parchi, nell’accoglienza, negli spacci dove si vendono i preziosi oggetti di artigianato, gioielli di argento e di turchese e tappeti morbidissimi. E la giovane e bellissima ranger, che generosamente ci ha aiutato a risolvere un bel guaio in cui uno dei nostri compagni di viaggio era incorso… Abbiamo avuto meno occasione di conoscere meglio i Nativi di altre etnie, come le enigmatiche popolazioni Pueblo, per una serie di sfortunati contrattempi, che non ci hanno consentito di visitare da vicino il pueblo di Mesa Verde, per un problema di prenotazione né quello ancora abitato a Taos, a causa di una festa rituale. Questa antica popolazione in passato affidava la propria sopravvivenza mimetizzando le loro città color dell’argilla nelle pieghe delle pareti dei canyon, rendendole fisicamente inaccessibili ai nemici, ma non ai loro fucili, come testimonia l’insediamento nel Canyon cosiddetto del Massacro. E sono rimasti inaccessibili anche a noi.
Abbiamo vissuto con emozione la vertigine della City in The Sky, ma non abbiamo potuto percorrere il sentiero che ci avrebbe permesso di discendere a piedi dal picco su cui l’insediamento è collocato, fatto di costruzioni Pueblos in adobe (mattoni di fango e paglia cotti al sole) senza elettricità o acqua corrente ma solo piovana, che sono ancora abitate, come “seconde case” dai nativi, che hanno riadattato alle esigenze moderne con generatori, bombole, bagni chimici ed infissi di recupero ( come spesso facciamo anche noi con le case dei nonni nei borghi antichi). Ci dovremo tornare, per completare queste bellissime esperienze!
Finisco questo post nostalgico con un ricordo ed un saluto affettuoso al gruppo di viaggiatori e viaggiatrici con cui abbiamo condiviso risate, incanti, vertigini, riflessioni e contrattempi. Persone rare, colte e divertenti. Con una parte di loro avevamo già viaggiato (in Canada, in Islanda). Con altri ci siamo incontrati per la prima volta in Indian Nation, ma è come se ci fossimo sempre conosciuti. Ed un ringraziamento speciale al nostro Tour Leader Maximo, Super-Gimmy Tranquillo, innamorato dell’America, che ci ha condotti a spasso per più di 3500 chilometri con la sua vulcanica energia, che non è venuta mai meno, anche quando “una serie di sfortunati eventi” (per definire così le varie sfighe che ci hanno perseguitato) hanno complicato il viaggio, nel quale regnava sovrana la Murphy’s Law (se una cosa può andare storta, state certi che lo farà ). E che è riuscito a trovare sempre soluzioni ingegnose e creative per rendere il nostro viaggio davvero indimenticabile. Alla prossima!!