Sab 2 Nov 2024
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Islanda, concluso felicemente il viaggio del Controradio Club

Firenze, sono rientrati alla base gli entusiasti viaggiatori del Controradio Club, dopo un indimenticabile viaggio in Islanda.

Mentre mi accingevo a scrivere questo articolo mi è arrivato un diario del viaggio in Islanda, scritto da Paolo Marini, che a parer mio è riuscito a mettere in bianco e nero su carta, le emozioni, gli scenari ed i colori del viaggio, senza indugio quindi lo condivido con voi in versione integrale, alternando ai suoi scritti giornalieri il programma ed i miei video delle varie tappe. Vi consiglio di leggerlo attentamente, grazie Paolo.
Gimmy Tranquillo

Sabato 20 agosto 2022: Firenze > Bologna > Keflavik > Reykjavik
Partenza con il volo di linea Air France delle 18h00 per Parigi. Arrivo previsto alle 19h45 e coincidenza con il volo IcelandAir delle 22h25 diretto a Reykjavik. Arrivo previsto alle 23h45 dopo 3h20’ di volo. Incontro con la guida e trasferimento in hotel a Reykjavik.
Lýðveldið Ísland
Volo IcelandAir Parigi Reykjavik FI541. Manca poco all’arrivo. L’orrendo, sconclusionato, dispersivo, pretenzioso Charles de Gaulle è già un ricordo. L’aereo è una chicca. Lo gestisce un equipaggio di sole donne, compresa una giovane e biondissima pilota. Non è completo. Il posto accanto al mio è vuoto e posso allungare le gambe. Sul monitor davanti a me scorrono i dati di volo. Mi soffermo su quelli in islandese. Mi affascina questa lingua antica, piena di strani segni, dalla pronuncia gutturale, ma armoniosa. È il primo assaggio di viaggio, preludio di un pasto che si preannuncia lauto. Schiaccio la testa all’oblò come fanno i bambini. Sono quasi le due di notte italiane, ma qui si va indietro di due. Sotto di me, lasciate le coste scozzesi, il mare del Nord ha i plumbei colori della notte, appena rischiarati dal quarto di una luna bassa. All’orizzonte il nero è squarciato da un chiarore orizzontale, fatto di strisce rosa e poi azzurre e blu scure. Si dice che fu un navigante greco, tale Pitea, il primo a visitare l’Islanda. Chissà se vide anche lui questi colori incantati di aurora glaciale. Chissà se conosceva quei versi di Omero dove la chiama “dalle dita rosate”. Comincio a avere sonno, ma non mollo. Sto finalmente entrando in trip da viaggio. L’aereo mi entusiasma, non ero più abituato. Mi ero scordato il rumore dei reattori, il tintinnio dei carrelli del cibo (in genere orribile), la coda al check-in, la noia dei controlli. Mi piace tutto. Soprattutto perché si va. Non importa dove. Ma si va. Perché, come diceva Bruce Chatwin, l’uomo è fatto per stare in movimento. E questi anni sono stato fermo troppo a lungo. Prima o poi doveva succedere. Partire, intendo. Anzi, ri-partire. E allora lasciamoci cullare in attesa dell’atterraggio. Ma non subito…restiamo in aria ancora un po’.


Domenica 21 agosto 2022: Keflavik > Reykjavik > Snaefellsnes
Breve tour panoramico della capitale islandese. Partenza per Snaefellsnes, definita spesso come una Islanda in miniatura: in pochi chilometri si trovano ghiacciai, vulcani, campi di lava, crateri, villaggi di pescatori, piscine geotermali e spiagge nere. Qui si trovano la montagna di Kirkjufell, più volte utilizzata come set cinematografico, la suggestiva spiaggia di Djúplalónssandur, le scogliere di basalto di Londrangar. e le formazioni rocciose di Arnarstapi.


Lame di luce
Come luccica Reykjavik sotto il sole! È una piccola città, sobria, dalla bella architettura fatta di moderni edifici multipiano con vaste vetrate open space aperte sulla baia, alternate a case più basse, graziose e spesso dipinte a colori vivaci. Ordinata e con poco traffico, ha un aspetto quieto e accattivante, quasi schivo come i suoi biondi e diafani abitanti. Due terzi degli islandesi, che in tutto sono trecentomila, stanno qui. Altri diciottomila a Akureyri nel nord. La visita è breve. Non c’è molto da vedere. Ad aver tempo sarebbe piacevole uno struscio per le graziose stradine del centro. Centro che è dominato dall’Hallgrìmskirkja, la bizzarra cattedrale di cemento armato che si ispira alle colonne di basalto vulcanico che si vedono da tante parti in Islanda. La cattedrale non sarà un capolavoro, ma oggi ha un’alleata formidabile che la rende bella: la luce nordica, che ne accende e risalta le ardite nervature verticali, in contrasto con lo spoglio interno di luterana severità. Ma non c’è tempo bisogna iniziare a percorrere la strada costiera, la mitica Hringvegur, Ring Road per gli Inglesi, 1335 km più deviazioni varie da fare per intero. Alla ricerca dei pochi umani che vivono ai suoi bordi. Nonché di un milione e mezzo di pecore (oltre a cavalli e mucche). Il pullman è guidato da una ragazza di nome Gulla. Avrà una quarantina d’anni, bionda, piuttosto in carne. Parla inglese. Non sorride mai. Piglia, da sola, le valige di trenta persone e le caccia nella pancia del pullman. Senza battere ciglio. Credo che con una così i nostri bagagli siano al sicuro. Inoltre, si rivelerà un autista eccellente. Si parte. La geometrica eleganza di Reykjavik cede rapidamente il passo al caos geologico. La luce artica illumina ed esalta un paesaggio di monti che paiono tagliati col laser, con crinali aguzzi come rasoi, addolciti da un rivestimento di muschio verde scuro. Praticamente inesistenti gli alberi, sterminati nei secoli passati soprattutto per farne carbone e ora faticosamente ripiantati in qualche porzione di pianura. Ma non lì! I vasti pianori sono un susseguirsi di pietraie laviche sconnesse, spesso impraticabili e ricoperte pressoché interamente da spessi strati di muschi e licheni. Il colpo d’occhio è formidabile. Ogni tanto pseudocrateri vulcanici interrompono la sinfonia delle colate. Laddove ci sono campi e pascoli si incontrano le pecore. Piccole, dal pelo lungo, scorrazzano a piccoli gruppi per tutta l’Islanda, apparentemente libere. Non si vedono pastori né recinti, né ovili. Eppure, da qualche parte dovranno sostare. Se non sono pecore allora son cavalli. Piccoli e tranquilli, curiosamente sogliono riposare stando completamente distesi in terra. Compare il mare. Calmo. Spiagge nere di piccoli ciottoli di basalto si susseguono. Uccelli bianchi accoccolati, risaltano nella luce vivida di mezzogiorno. Si arriva alla penisola di Snaefells dominata dallo Snaefellsjoküll, un monte-ghiacciaio incendiato dal sole. Maledico di essere controluce per le foto. Il monte in realtà è un vulcano (spento?) la cui notorietà è merito di Jules Verne che qui ambientò la discesa iniziale nel “Viaggio al centro della terra”. Qui la natura esprime una potenza indescrivibile. Si raggiunge l’impronunciabile spiaggia di Djúpalónssandur: cosparsa dei resti arrugginiti di un vascello inglese naufragato nel ’48, che risaltano sulla sabbia nera. Tutt’intorno squarci di lava forata, ispida, sconvolta. Piccole lagune. Tappeti di licheni su pareti verticali di basalto. Il verde di erba e erica nana qua e là. Il sole ci aiuta e dopo essersi andato a coprire un po’, decide di riesplodere generoso, esaltando con preziosi chiaroscuri quell’ oceano di pietre in contrasto con il blu scuro dell’oceano mare. La giornata termina ad Arnarstapi, sede di un hotel. Quattro case. Un porto microscopico in cui è quasi incastonato un peschereccio dalla cui pancia escono casse piene di merluzzi appena catturati. Alle spalle lo Snaefelljoküll esala gli ultimi riverberi di luce. Il cielo si vela. Si alza un vento gelido. A un tratto, quasi uno scatto d’orgoglio prima di tramontare, ricompare un sole mai stanco e sotto i miei occhi esplode lo splendore di un tratto di costa fatto di alte scogliere, archi di pietra, uccelli marini e del silenzio dell’imminente notte. Mi aggiro, faccio foto per poi imbattermi nel monumento a un Troll che mi guarda col suo bizzarro nasone di pietra. Lo si credeva una creatura bizzarra e dispettosa. Si dice anche che non sopportasse il sole. Sorrido al pensiero che per oggi l’ha dovuto sopportare.


Lunedì 22 agosto 2022: Snaefellsnes > Akureyri
Partenza per il nord dell’isola verso Akureyri. Lungo il percorso è prevista una sosta alla Casa-Museo di Erik il Rosso, forse il più famoso tra tutti i vichinghi. Arrivo nel tardo pomeriggio ad Akureyri, la seconda città più grande dell’Islanda, e breve giro orientativo a piedi.

Ode al lichene e altre oziose considerazioni in una tappa di passaggio
Gulla, la nostra autista, sta finendo la sua colazione a base di yogurt e Coca-Cola. Curva sul tavolo, assomiglia a Ettore, il bulldog di Tom & Jerry. Vedendoci arrivare, scatta come una molla ad aprire i portelloni del pullman. Acchiappa le valige come fossero gingilli, sistemandole a partire dalle più grosse via via scemando. Non tollera aiuti. Fatta la funzione spranga tutto, sale e accende. Saliamo in ordine. Non si parte fintantoché ogni passeggero ha allacciato la cintura di sicurezza. Il troll di pietra mi guarda e sogghigna: oggi è nuvolo e lui non nasconde la sua soddisfazione. Me l’aveva promesso ieri sera. Ciononostante, il paesaggio continua ad essere bellissimo. La strada corre su un piano via via più ampio. Non ci sono i campi lavici, ma prati e pascoli. A sinistra la montagna espone strati di pietra scura orizzontali. Ogni tanto una fenditura profonda taglia a perpendicolo le rocce. Sul fondo l’acqua forma sovente ardite cascatelle. La costa è più lontana. Il cielo davvero non promette niente di buono. Una pioggia finissima spolvera per un po’ il parabrezza dell’impassibile Gulla. L’asfalto bagnato si fa d’argento, esaltando i numerosi rattoppi colpa di inverni troppo lunghi. A un tratto si devia per raggiungere la Búðakirkja, la chiesa nera di Búðir. Una curiosa costruzione a guardia di un pittoresco cimitero con le tombe affondate nel muschio. Siamo davanti all’oceano. La spiaggia è bellissima, ampia e scura. Gabbiani e altri uccelli svolazzano su un mare calmo del colore del ferro. Si riparte. A Borgarnes si ripiglia la hringvegur. Direzione nord verso Akureyri, seconda città d’Islanda malgrado abbia gli abitanti di Borgo S. Lorenzo. Oggi tappone di spostamento. Il paesaggio cambia continuamente. Adesso è meno aspro. Le montagne proseguono nel presentarci il loro campionario di rocce, muschi, fenditure e cascate, ma sono più lontane. Un piano vasto e regolare tale da sembrare alluvionale, si amplia sempre di più. Compaiono campi coltivati, la maggior parte a foraggio. Il panorama è costellato qua e là da fattorie. Molto isolate le une dalle altre. Talvolta un fabbricato unico, altrimenti raggruppate in piccoli agglomerati di 3 o 4 case. Ogni tanto si nota la presenza di una chiesetta. Nei campi pecore a gruppetti brucano tranquille. In lontananza trattori gialli come enormi locuste falciano il fieno stipandolo in grandi sacchi su un rimorchio. Il risultato sono rotoballe che, impacchettate in film di plastica bianca o nera punteggiano a migliaia il paesaggio come pedine di una dama gigante. Quando batte il sole luccicano come pezzi di marmo. Si vedono molte chiazze alberate, frutto di piantumazioni recenti, volte ad attenuare la drammatica, secolare deforestazione che ha portato quasi a zero i boschi del paese. Spesso accanto alle fattorie si vedono ciuffi di alberi ormai adulti. Più lontano, giovani abeti, anche minuscoli, guadagnano terreni da secoli perduti. Ai bordi della strada, strane piante erbacee dal portamento elevato e un’infiorescenza circolare richiamano l’attenzione. Sono chiamate palme di Tromsö ed erano un alimento base nella dieta dei Vichinghi. A un tratto il paesaggio muta bruscamente. L’Islanda, pur mantenendo sempre la natura vulcanica, ha mutevoli aspetti. Quasi come il tempo. Ora la valle si restringe e ricompaiono i campi di lava sui quali campeggiano rigogliosi i licheni. Licheni…Che ne sarebbe dell’Islanda senza di loro? Un accordo in natura tra un’alga o un cianobatterio e un fungo dà vita a un meccanismo formidabile e redditizio. Crescono dappertutto, non hanno bisogno quasi di niente e permettono poi lo sviluppo di altre piante. E sono pure commestibili. Per gli animali e anche per l’uomo. Infatti, nella locale gastronomia tradizionale esistono zuppe di latte e lichene. Oggi sono ingrediente raffinato degli chef della nuova cucina scandinava e anche islandese. È certo che ce n’è bisogno in un ricettario ancestrale che comporta gourmandises quali l’hakarl (pezzi di squalo artico fatto fermentare sei mesi sottoterra e poi appeso a seccare al vento del nord) oppure lo svið (testa di pecora bollita). Mentre faccio queste considerazioni il pullman devia nuovamente, inerpicandosi in una valle spoglia che presto si fa canyon con gole laterali magnifiche e chiazze di neve molto vicine. La successiva visita a una casa Vichinga poco interessa se non per l’accuratezza della ricostruzione e la simpatia della guida-guardiana. I chilometri si fanno sentire e si ha voglia di arrivare. Anche Gulla pare stanca di tutto questo andirivieni. Si riparte per non fermarsi se non per vedere una chiesetta fatta di torba e legno e col tetto di erba. Un sole improvviso e accecante ci illumina l’ultima parte del tragitto fino a Akureyri. Avrei preferito risparmiarlo per domani.


Martedì 23 agosto 2022: Akureyri > Dettifoss > Myvatn
Partenza per le visite nella zona di Myvatn, tra cui gli pseudo crateri, il campo lavico di Dimmuborgir e la zona geotermica di Hverarond. Continuazione verso Husavik e imbarco per l’escursione di avvistamento delle balene.
Le tre acque
Che città deliziosa che è Akureyri, capitale del nord dell’Islanda! Adagiata al fondo dell’omonimo fiordo ha spazi vasti e ben tenuti. Belle case signorili nel pendio digradante verso il mare. Un aspetto che la fa somigliare a certe città termali della Mitteleuropa, ma con un tratto gentile e meno austero. Magnifico il piccolo orto botanico, fra il centro e l’ospedale, curato con meticoloso orgoglio. In città la luce rossa dei semafori è a forma di cuore, secondo un’idea geniale dell’amministrazione, scaturita all’indomani della crisi economica del 2008. Si voleva dare un messaggio di fiducia alla gente. Il risultato è stata una botta di notorietà che prosegue tuttora. Ci sono locali gradevoli, mai sguaiati. In uno ceniamo. La giovane cameriera è bionda e sottile, i capelli legati e delle incredibili unghie finte triangolari, lunghe e aguzze, che le rendono difficile tenere in mano il taccuino per le ordinazioni. Altre ragazze lavorano nel locale. Pelle chiara chiara. Bionde e più in carne. Sono tutte molto gentili. Mangiare in Islanda costa quasi il doppio che in Italia. Carissimi gli alcolici. Tranne la birra sono venduti dallo stato. Per controllare chi ne consuma troppo. Più è alta la gradazione più alto è il prezzo. La birra analcolica costa poco. Al mattino si fa colazione nella bellissima caffetteria dell’orto botanico, tutta legno e vetro con vista sul prato dove un’addetta taglia l’erba con una motofalciatrice gialla. Un grande tavolo col piano di granito nero accoglie le vivande. Al bancone una giovane alta dai capelli scuri. Un volto dai tratti morbidi. Occhi grandi. Sembra Biancaneve. Quella disneyana, intendo. Lasciare Akureyri dispiace, ma il tempo è tiranno. Bisogna raggiungere il porto di Húsavík, sull’oceano. Si va a caccia di balene. Húsavík è un paese di pescatori brillantemente convertito, almeno d’estate, al turismo. Duemila abitanti, case colorate, una chiesetta di legno, qualche negozio, magazzini. Attorno una bella corona di montagne innevate. All’imbarcadero un giovane vichingo, altissimo e gentile, con i capelli biondi lunghi fino alle spalle, distribuisce pesanti cerate imbottite. Mi squadra e soppesa e poi opta per una enorme. In tutto siamo una quarantina. Tutti vestiti in nero col sopra arancione. Riempiamo tutta la barca che non è grande. Visti dall’alto dobbiamo sembrare un grande vassoio di gamberoni giganti (e cotti). Il mare è calmo, percorso da un’onda lunga. C’è parecchio vento, freddo. Meno male che siamo vestiti così! Passiamo accanto a un isolotto fatto a tronco di cono, ricoperto di muschio. Gabbiani a coppie compiono evoluzioni ardite attorno a noi. Più in là si scorgono gruppi svolazzanti di pulcinella di mare. In acqua galleggiano cormorani che si inabissano al passaggio del battello. Quest’ultimo piega verso nord-ovest in un punto così riparato che il vento quasi cessa e non fa più freddo. La baia è magnifica. L’acqua appena increspata sembra addensarsi, mandando riflessi opalescenti. Sullo sfondo catene montuose innevate sono attraversate, a metà della loro altezza, da sottili nuvole basse. La luce cambia di intensità ogni poco. Quello che manca sono le balene. Il pilota timona in qua e in là, in cerca di qualcosa, ma oramai è tempo di invertire la rotta e rientrare. Come d’incanto, però, il mare s’increspa in un punto a babordo, due coppie di delfini prendono a girare e saltare tra scene di entusiasmo. Come se non bastasse, a un tratto, nel braccio di mare calmo, uno spruzzo rivela: balene! Un paio di balenottere minori e poi almeno un altro paio di grossi cetacei dalla testona grande (iperodonti boreali, mi dicono). Non sono vicini, ma si vedono benissimo. La gita a mare ha avuto successo! Che soddisfazione! Che animali superbi. Peccato che qui ancora non abbiano smesso del tutto di cacciarli. Si rientra felici, ma in ritardo sulla tabella di marcia. Si parte subito. Dal mare al lago. Myvatn il nome. Ci si arriva per l’ormai consueta bella strada. Ma il posto sorprende comunque. Un vastissimo ripiano accoglie uno specchio d’acqua frastagliato, cosparso di isolotti erbosi bassi e da rocce laviche che escono dall’acqua a guisa di mostri marini. L’attività dei vulcani è stata così alta che colate di lava, rotolando sull’acqua hanno creato esplosioni e conseguenti pseudocrateri che danno al paesaggio un aspetto surreale. Non a caso qualcosa di simile c’è anche su Marte. Se descrivere il paesaggio del Myvatn è complesso, impossibile è descrivere l’adiacente fenomeno del Dimmuborgir. Da bambino mi piaceva tanto fare gli esperimenti in cucina (segno premonitore di futura passione!). Uno era fare il caramello. Io provavo e lui regolarmente bruciava. Non mi restava che versarlo in una catinella d’acqua fredda dove il contatto generava nuvole di vapore e il caramello solidificato assumeva le forme più bizzarre. Dimmuborgir è un gigantesco caramello di lava, solidificato nelle forme più disparate. Un sentiero lo percorre tra colonne, lapilli immobilizzati, creste, grotte, mostri di pietra, archi, anelli, portali…ignoravo, confesso, l’esistenza di un simile luogo, che mi dicono essere stato un importante set cinematografico. Abbandoniamo il lago, impegnato a disperdersi lungo l’altopiano in un torrente impetuoso che serpeggia tra massi e gole in un affascinante tragitto verso il mare. S’è fatto tardi, un nuvolone basso lascia filtrare i raggi obliqui del sole, illuminando una valle in fondo. Il pullman compie l’ultimo sforzo fermandosi alle Godafoss, le cascate degli dèi, la terza acqua di oggi. Sono così belle, ma è così tardi che rinuncio a descriverle, affidandomi alle immagini e al loro eloquente potere. È il momento di riposare. Domani lunga tappa: 496 chilometri. Si va a sud verso il grande ghiacciaio. Il Vatnajokull ci attende.


Mercoledì 24 agosto 2022: Myvatn > Hofn
Proseguimento per il Sud-est dell’Islanda con varie soste lungo il tragitto che costeggia i fiordi orientali. Arrivo nel tardo pomeriggio ad Höfn.
Potente e fragile
L’albergo diffuso in cui sto finendo di fare la doccia, era una fattoria o forse lo è ancora. Almeno d’inverno. Siamo a sud del lago Myvatn, oltre le cascate Godafoss. Fuori fa freddo. Il proprietario e il suo staff famigliare stanno approntando la cena. Mi affretto a finire. L’acqua sa di zolfo. Come quasi dappertutto in Islanda. Esce così, calda e puzzolente, dalle viscere della terra a riscaldare le case, le serre e le vasche di terme e piscine, tinozze e quant’altro e che quindi si trovano ovunque. Anche qui in fattoria ce ne sono un paio. Poco più che pozze, chiuse perché ormai si è fatto tardi. Perciò un gatto ne approfitta per sistemarsi al calduccio sul coperchio. Lo raggiunge un coniglio col pelo arruffato che tutti carezzano. Mentre mi avvio a tavola ho sempre in mente l’armoniosa, elegante grazia potente delle cascate di ieri, ma più ancora mi sforzo di capire qual è la sensazione dominante che mi induce la visita di questi luoghi. Non mi è ancora chiara, ma sono certo che la troverò. La cena scaccia la voglia di ragionare. C’è parecchia confusione. Nel ristorante ci sono solo italiani! Ne abbiamo incontrati moltissimi in questi giorni. Non so se sia un bene o un male. O meglio, lo so, ma non lo dico. Partenza al mattino successivo. Si va a sud. Tempo decisamente brutto. Nuvole bassissime. Poca visibilità. Rapidamente si passa da un paesaggio rurale fatto di campi coltivati a foraggio a un panorama brullo e disadorno preludio all’inferno di Námafjall. Qui, in un’ansa alle pendici di una collina, un susseguirsi ininterrotto di fumi, fumarole, soffioni, sorgenti bolle di fango grigio, rivoli d’acqua bollente si un offre alla vista. In lontananza il fumo concentrato di una centrale geotermica. Il terreno ha mille colori e varia dal nero del basalto al giallo dello zolfo fino al bianco del borace e al rosso del ferro. Torniamo al bus con gli scarponi lerci. Gulla ci attende al varco, imponendoci l’uso di un curioso pulitore a più spazzole prima di risalire a bordo. La strada prosegue fino a un piazzale piuttosto affollato. Lì, in mezzo a un ripiano di lastroni di basalto, un sentiero porta alle cascate Dettifoss. Il rombo coglie d’improvviso. La vista, assai ravvicinata, della spaventosa massa d’acqua è emozionante. È un tuono primordiale. Risalendo la terrazza naturale che la delimita, si comprende che il fiume, prima di gettarsi scorra in un letto con pareti di roccia verticali. L’acqua è grigia del colore dell’argilla. Duecento metri prima, il fiume affronta un’altra cascata, Settifoss, meno bella, ma solo perché Dettifoss è impareggiabile. Si riparte. Da lì in poi il panorama diviene lunare: uno spettacolare deserto nero di basalto con tanto di dune, si alterna a sporadiche chiazze di muschi e licheni. Una deviazione su sterrato porta, dopo pochi chilometri, fino al villaggio di Modrudalur, un nome buono per il signore degli anelli, dove faremo sosta-pranzo.Villaggio…Qui si fa per dire: case coi tetti ricoperti di torba, un distributore di benzina anch’esso col tetto in torba, una caffetteria nel nulla, una chiesetta e…due volpi artiche, ancora con la livrea estiva, accoccolate sotto un ponticello. Il tempo peggiora, si riparte. Pioggia e nebbia. Per evitare una lunghissima strada che costeggia alcuni fiordi, peraltro con questo tempo invisibili, è previsto tagliare dal passo di Öxi. Il tratto si rivela sterrato, fradicio di pioggia, ostico e anche trafficato. Auto, mezzi pesanti, camper mettono a dura prova Gulla (e un po’ anche noi). Lei, però, nonostante tutto non perde il suo nordico aplomb. Che pilota che è questa donna! Alla fine, si riprende la hringvedur e nel mentre il paesaggio cambia di nuovo. Adesso il mare è a sinistra, ma fra lui e la strada si estendono terreni paludosi, lingue di sabbia e lagune. A un tratto la nebbia scompare. Il sole esalta i dettagli. Le montagne a destra prendono colore e luccicano della pioggia. Si scorgono fattorie e altri rari insediamenti umani. Nelle lagune nuotano molte coppie di cigni in attesa di migrare a sud. Tra le nuvole basse compare, coperta, una delle trentotto lingue del ghiacciaio Vatnajokull. La giornata è finita. Oramai arrivato penso ancora a definire il sentimento dominante. No, non è la potenza della natura, né l’indubbia bellezza. È la fragilità! La constatazione di quanto tanto splendore sia minacciato. Un lichene cresce di pochi millimetri all’anno, il Vatnajokull ogni anno si ritira di trecento metri. Il ghiacciaio di Giulio Verne sparirà entro 20 o trent’anni. I paesaggi, le brughiere, le distese di basalto, se calpestati o comunque troppo frequentati, si alterano irrimediabilmente. Questo paese è tanto bello, quanto delicato anche se lo nasconde abilmente dietro una natura così dominante. Per questo più lo visito e più mi viene voglia di tornarci. Nel frattempo, il vento è calato. S’è alzato un nebbione che non promette niente di buono per domani. Meglio che non ci pensi, meglio dormire.


Giovedì 25 agosto 2022: Hofn > Jokulsarlon > Skaftafell > Svartifoss > Vik
Visita alla laguna glaciale di Jökulsárlón, con una navigazione su mezzo anfibio. Si prosegue poi con la visita del parco nazionale di Skaftafell, situato ai piedi del ghiacciaio Vatnajökull. Attraversamento in bus della più grande regione di lava del mondo, Eldhraun. Prima di arrivare in hotel, sosta alla baia di Reynisfjall, dove si trovano gli scogli di Dyrholaey, sui quali nidificano le pulcinelle di mare, e visita della spiaggia nera di Reynisfjara.
Nebbie e diamanti
Parla italiano la cameriera della Gerdi Guesthouse di Höfn, microscopico paesino davanti a una zampa del Vatnajökull. Non è di qui. Viene dalla Grecia e l’italiano lo ha imparato durante un breve soggiorno a Firenze. È gentile e racconta di come tantissimi siano gli stranieri che vengono a lavorare come stagionali. Guadagnano e sono trattati bene. Per cena, dopo una zuppa di verdura, ci porta un arrosto di agnello che piuttosto, vista la dimensione, è pecora giovane. Ed è pure buono, così come in genere buono è il mangiare in Islanda. Niente cibi estremi: squalo marcito, testa di pecora bollita, lingua di merluzzo, testicoli di montone o quant’altro oramai più leggenda che sostanza. Non è invece leggenda la nebbia che rapidamente sale dal mare e che, dopo un illusorio sole, copre rapidamente uomini e cose, lasciandoci perplessi e delusi, mentre terminiamo l’ottimo breakfast. Breakfast in cui fa il suo debutto un patè di pecora e un’aringa in agrodolce. Ottimi entrambi. Gulla apre la pancia del pullman, sistema le valige e partiamo. Preoccupati, scrutiamo il cielo in cerca di un segno di conforto. Niente. Pare di stare nel cotone idrofilo. Partiamo. La Breiðamerkursandur, meglio conosciuta come spiaggia dei diamanti, è poco distante. Nella piazzola di sosta non si vede a dieci metri. Arrivare sulla spiaggia è questione di minuti. Si sente il rumore della risacca delle onde sulla spiaggia di piccoli ciottoli scuri, ma il mare non si scorge. D’un tratto, luminoso come un’astronave, surreale come un dipinto di Max Ernst, si materializza la carcassa di un grande cristallo di ghiaccio. Adagiato sulla sabbia nera, traforato dal disgelo, trasparente e purissimo appare come una visione. Appena l’occhio s’abitua, si scorgono tanti altri frammenti di ghiaccio. Alcuni ancora in mare, trasmettono il loro chiarore malgrado la nebbia. Ce ne sono di trasparenti, opachi con venature, di varie gradazioni del celeste. Sulla spiaggia, come sul palcoscenico di una performance, ne giacciono moltissimi di varie forme e dimensioni. Alcuni, piccoli e prossimi alla totale scomparsa, sembrano quei piccoli diamanti che nei diademi circondano la grande pietra principale. La nebbia alfine ci ha fatto un regalo, rendendo preziose, quasi incastonate, queste effimere, bellissime forme. C’è molta gente, intenta a guardare, fotografare e fotografarsi. Mentre mi sposto all’estremità della spiaggia per vedere l’impetuoso canale, proveniente dal Vatnajökull, che rifornisce di iceberg questo luogo incantato, sento degli schiamazzi. È una comitiva di spagnoli che fa le foto tra i cristalli. Un paio di loro sta calpestando i più piccoli. Un altro ne prende uno in mano per farsi un selfie. Infine, noto un terzetto che stende la sciarpa di una squadra di calcio su un pezzo di ghiaccio e si fa una foto tutti assieme, sciarpa compresa. Reprimendo istinti omicidi, faccio le ultime foto prima di tornare al pullman diafano nella nebbia che non molla. Arrivato alla laguna glaciale, constato con sgomento che la visibilità è davvero scarsa. C’è molta gente. Girello in attesa di fare l’escursione col battello. Giganteschi blocchi di ghiaccio sono ben visibili. Hanno forme le più disparate cui la nebbia conferisce un’aura misteriosa. Il battello è un anfibio. Un barcone con chiglia gialla, quattro ruote dal battistrada consumato, un’elica sotto la pancia e un tubo di scarico verticale alto alto. Visto così pare più un mezzo adatto a un cartoon di Pippo, Pluto e Topolino al polo Nord. Invece imbarca gente. Appena salito a bordo vengo impacchettato con un giubbotto di salvataggio rosso acceso e troppo stretto. Sembro un tacchino. Una ragazza ci dà istruzioni in inglese su come comportarsi, dove siamo ecc ecc. Ha un viso poco islandese. Infatti, è colombiana. Anche lei stagionale. Il buffo mezzo caracolla ridicolo sul terreno fintantoché entra in acqua. Qui riacquista dignità. Nel frattempo, scorrono, magnifici, gli icebergs più diversi. La nebbia aggiunge suggestione a un luogo che peraltro non ne ha bisogno, bello com’è. Però se penso che la laguna sia nata solo novant’anni fa e che da allora la velocità di fusione e arretramento del ghiacciaio si è terribilmente incrementata, non riesco a vederlo se non con una profonda vena di inquietudine, che non mi abbandona anche quando vengo via, malgrado l’allegra comparsa di una foca che ci guarda curiosa per poi presto sparire. Cerco di consolarmi con un ottimo sandwich coi gamberoni. Il pullman ci reclama e faccio appena in tempo a finire che già sto sopra. Skaftafell si chiama la nuova meta: è un parco. Si cammina fino al margine di una lingua glaciale. La nebbia è sparita. In compenso a tratti pioviggina, ma la camminata è piacevole. Giunti al piede del ghiacciaio, constato l’imponenza del torrente di fusione e mi piglia un senso di smarrimento. Poco dopo arrivano i soliti spagnoli, stranamente silenziosi forse per il lungo tratto a piedi. Non rinunciano, però, a sciorinare la solita sciarpa della squadra del cuore per un selfie col ghiacciaio di sfondo. Non c’è la posso fare! A questo punto torno indietro e chiedo asilo alla caffetteria del parco, consolandomi con un cheesecake ai frutti di bosco. Ripartendo, noto che il tempo migliora ulteriormente. Attraversiamo luoghi ancora una volta diversi. Anfiteatri di monti foderati di muschio. Fattorie lontane, incredibilmente isolate. Una straordinaria serie di cascate. Gruppi di rocce modellate dall’acqua in forme bizzarre. E soprattutto Eldoran, il più grande campo di lava del mondo. Un luogo da hobbit. Una sorta di mare agitato in pietra rivestito da uno spesso strato di licheni. Si estende, mai uguale, per chilometri quasi fino alla spiaggia nera di Reynisfjara, lascito di un vulcano cattivo, il Katla, attualmente silente, ma non spento e nascosto da una calotta di ghiaccio, il Mýrdalsjökull. Il vulcano ha anche lasciato sulla spiaggia dei magnifici colonnati di basalto esagonale in forma di caverna in cui una folla davvero esagerata si ripara, fa selfie, si arrampica. Ciononostante, il posto è magnifico anche grazie al sole scintillante che oramai la fa da padrone. Indugio ancora un po’, la vacanza è agli sgoccioli. Me la devo centellinare.


Venerdì 26 agosto 2022: Vik > Geysir > Thingvellir > Keflavik > Reykjavik
Partenza per Reykjavik con soste fotografiche alla cascata di Skogafoss ed a quella di Seljalandsfoss. Proseguimento verso l’area del “Circolo d’Oro” dove si visiteranno la cascata di Gullfoss, che si getta con un doppio salto in un canyon e la zona di Geysir che ha dato il nome a questo fenomeno di vulcanesimo secondario, con sosta presso Stokkur, il geyser più importante. Ultima tappa, il parco nazionale di Thingveillir, che si trova in un punto di grande interesse geologico, ovvero lungo la faglia che separa la zolla americana da quella europea. Questo parco è stato dichiarato Patrimonio Unesco perché fu la sede del parlamento islandese, il più antico del mondo.
Il cerchio finisce a Reykjavik
Mattina dell’ultimo giorno d’Islanda, dal promontorio Dyrholaey, dove si trova l’omonimo hotel, la vista è stupenda. Non c’è una nuvola e lo sguardo spazia per tutta la Reynisfjara, la spiaggia nera. Maledizione, non doveva finire così, con questo sole divino! Come si fa a lasciare questo posto meraviglioso con una luce così? Oggi doveva piovere, esserci la nebbia, un freddo da rincitrullire, un vento malvagio. Oggi dovevo trovare il bagno allagato, fare una colazione rancida, litigare con quattro islandesi affinché considerassi un sollievo andarmene via. Invece ho il nervoso perché vorrei restare che tante sono le cose da fare, da conoscere. Oltre ai luoghi di natura, mi incuriosisce quella degli islandesi. Chi è questo piccolo popolo di grandi uomini e donne? Gente che è passata da cacciare e pescare e vivere in case dal tetto di torba fino ai primi del Novecento, a essere un moderno popolo di operatori in vari campi di cui l’ultimo, il turismo, sta avendo uno sviluppo clamoroso. Un popolo che parla la lingua delle saghe nordiche, che è in grado di leggere senza intermediazione. Come se noi fossimo in grado di leggere il volgare del ‘200 senza che nessuno ce lo spiegasse. Un popolo sì di pescatori e allevatori, ma anche di accaniti lettori e financo scrittori se è vero com’è vero che si calcola che, nell’arco di una vita, un islandese su sette scriverà un libro. Tali considerazioni non sono mie, quanto scaturiscono dall’ascoltare Sandra, sagace e arguta, impareggiabile guida che con competenza e grande cultura nonché humor romano-lappone, ha accompagnato lo svolgersi di questa settimana, contribuendo a farmi venire il mal d’Islanda. E io gliene sono infinitamente grato mentre Gulla ci fa allacciare per l’ennesima volta le cinture. Oggi si va per cascate. Si comincia con Skogafoss, piena di armonica grazia e che ci accoglie con un arcobaleno completo. La strada, tanto per cambiare, è bellissima, dominata dai ghiacciai e adagiata su un vasto ripiano di antiche eruzioni. Lo percorrono molti fiumi e torrenti. Ogni tanto attraversiamo una vasta fiumara di sabbia nera. Siamo oramai nel regno dell’Eyjafjallajökull, il malefico vulcano che nel 2010 eruttò catastroficamente, causando una nuvola che bloccò per giorni il traffico aereo. Furono infatti cancellati 100.000 voli. L’Eyjafjallajökull ha generato due figlie: Seljalandsfoss e Gullfoss. La prima è una potente colonna che diffonde una corona di spruzzi a 360°, visto che è possibile passarci dietro, grazie a un ripido e scivoloso sentiero. Sul quale, per inciso, ho ritrovato il gruppo di spagnoli, tormentatori seriali, intenti stavolta a rallentare la salita a tutti, fermandosi ogni poco fra chiacchiere e titubanze. Quanto a Gullfoss, c’è poco da dire: è una delle più spettacolari del mondo. Mi rendo conto di essere inquieto. È così ogni ultimo giorno di viaggio. La visita al parco dei geysir è doverosa e interessante, ma a parte la bolla blu che precede l’eruzione d’acqua del principale, lo Strokkur, non la si può definire memorabile. Emozionante invece il parco di Þingvellir ovvero la faglia dove si incontrano, anzi si separano, lo zoccolo americano e quello euroasiatico. Accanto ad essa i resti dell’Alþingi, il più antico parlamento del mondo, fondato nel 930. A questo proposito, mi sovviene il ricordo che in nessun paese come in Islanda è possibile analizzare il Dna di generazioni e generazioni. Lontananza e isolamento in zone impervie hanno fatto dell’isola una fortezza genetica: le contaminazioni di razze estranee nei secoli sono state pochissime, così che gli islandesi di oggi hanno molto in comune con i vichinghi loro avi. Anche se tale condizione andrà a termine poiché da tempo è in atto un ampio fenomeno migratorio. Sebbene il parco di Þingvellir sia molto bello, è giunto il momento di rientrare a Reykjavik. Il sole seguita a provocarmi coi suoi raggi sfacciati. In cielo zero nuvole. Spira un vento molto forte. Anche a Reykjavik sole e vento la fanno da padroni. In cerca dell’ultimo ristorante, due passi in città non guastano. È venerdì, c’è molta animazione. Belle case illuminate, noto bei negozi e qualche galleria d’arte aperta. Da molti locali giunge il rumore di musica dal vivo. I bar e i ristoranti sono pieni. Passano, rombando, due o tre macchinoni americani anni ’50. Dev’essere una passione diffusa da queste parti. Sì, certo, qui in città. Chissà che faranno la sera nelle innumerevoli fattorie incontrate negli oltre 2000 km pilotati da Gulla? E i pescatori dei fiordi del nord? Mastico gli ultimi bocconi di merluzzo fritto. Mastico amaro perché mi tocca andare via. Ma non finisce qui. Almeno spero.

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Sopravvissute, storie e testimonianza di chi decide di volercela fare (come e con quali strumenti)