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Con la chiusura dei musei in tutti e tre gli scenari in cui è stata suddivisa l’Italia (quello Rosso, quello giallo e quello verde), si spegne definitivamente tutto il comparto della cultura, relegato nel purgatorio delle attività non essenziali. Come era già accaduto al teatro, e alla musica, si chiude. In attesa che qualcosa capiti.
Certo, arriveranno i contributi a supporto dei lavoratoti colpiti (i ristori, come si chiamano oramai), certo ci saranno le piattaforme on line ad alleggerire la resa, e si studieranno i modi di non sacrificare la produzione. Magari si incentiveranno canali di fruizione alternativa; forse si avrà addirittura il coraggio ad interloquire con i grandi player dell’intrattenimento globale. Rimane il significato devastante, il messaggio terribile di una resa che non ha ragioni oggettive.
In generale la cultura, tranne forse i grandi concerti o gli eventi ipermediatizzati, non muove grandi folle. Anzi. Spesso i teatri fanno fatica a riempirsi, non solo nelle realtà più periferiche. E i musei, a parte i grandi feticci del turismo globale, sono spesso cattedrali vuote. Dove è più facile incontrare un fantasma che un altro essere umano. E allora?
Cosa c’è dietro una decisione che dal punto di vista epidemiologico non porterà oggettivamente alcun beneficio? Probabilmente l’idea che appunto la cultura non serve. Che con la cultura non si mangia. Che non è necessaria.
Tranquilli però: quando tutto questo sarà finito tornerà la retorica della Cultura come bene essenziale, come nutrimento dell’anima, come elemento fondamentale dell’identità. Sta di fatto che proprio nel momento in cui servirebbe un punto di riferimento che non siano i bollettini della protezione civile sul coronavirus, si chiude tutto. Cala il sipario. E noi siamo qui a chiederci, perché. Sapendo bene che, questo sì, non serve.
Perché il perché è proprio in quel gesto di spengere le luci, sigillato dallo stesso ministro Franceschini nel momento in cui quasi rimprovera come scolaretti irresponsabili chi si attarda ad esprimere perplessità. E se anche il ministro della cultura relega la cultura al ruolo di orpello anche un po’ fastidioso, allora, mi sa che c’è davvero poco da fare. O meglio, c’è tantissimo.
DG