Prato, lo scorso 7 giugno ha aperto i battenti, al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, il secondo tempo di quella che è, con buona probabilità, la più completa e importante mostra che sia mai stata dedicata alla storia e alla cultura dei club: ‘Night Fever. Designing Club Culture 1960 – Today’.
Il primo tempo si era svolto, con grande successo internazionale, al Vitra Design Museum che, assieme ad ADAM – Brussels Design Museum, ha prodotto il grande progetto espositivo fornendo uno staff curatoriale di alto livello, capitanato da Jochen Eisenbrand e coadiuvato da Elena Magini, come curatrice associata per la mostra al Centro Pecci che ha visto l’aggiunta di un’importante sezione dedicata agli incroci, tutti italiani e molto fiorentini, tra architettura radicale e mondo dei club.
Per accompagnarci nel migliore dei modi verso la chiusura della mostra, il Centro Pecci ha ideato ‘My Fever’ una rassegna di quattro incontri in mostra per scoprire dalla voce dei protagonisti la storia della Club Culture. Nel primo incontro di giovedì 19 settembre alle ore 18, ci accompagneranno nelle sale della mostra Simona Faraone, una delle prima donne dj d’Europa, pionieristica animatrice della scena romana dai primi anni 90, e Mauro “Boris” Borella, uno dei fondatori e animatori dello storico club Link di Bologna, luogo cruciale per lo sviluppo del clubbing italiano collegato alle scene internazionali. Io avrò il ruolo di incalzarli e mediare le domande del pubblico. Dopo la visita alla mostra seguirà un Dj Set di Simona Faraone. L’ingresso all’evento è libero con biglietto della mostra.
Bisogna considerare che il modo in cui questa storia è stata scritta parte da un presupposto: le discoteche sono stati veri e propri epicentri di cultura contemporanea. Hanno messo in discussione i codici prestabiliti del divertimento e hanno permesso di sperimentare stili di vita alternativi attraverso le manifestazioni più d’avanguardia del design, della grafica e della moda. Comprendendo a fondo questo assioma si può tessere una intricata matassa di fili che tengono insieme contesti e linguaggi differenti. Perché i club sono stati dei luoghi fondamentali per l’emersione e la crescita delle subculture. Oltre agli eventi musicali, per i quali hanno costituito il laboratorio delle nuove tendenze, sono stati la cornice ideale per lo sviluppo delle arti performative e del design, chiamato a rispondere alle necessità di flessibilità dello spazio. Lo spazio definito dai club è partecipativo e democratico e così deve essere il design che lo struttura. Ma hanno amplificato anche alcuni dei movimenti e delle scuole di moda più radicali e creative, hanno generato un nuovo modo di intendere l’editoria di costume e società, hanno proficuamente intrecciato la propria storia con quella di tanti momenti fondamentali dell’arte più rivoluzionaria e fuori dagli schemi.
E non si tratta solo di edonismo, anzi. A ben guardare, dalla mostra emerge una continuità forte quella tra i movimenti di emancipazione rivendicazione sociale e la scena club. “La costruzione dei processi di auto-coscienza e di identità dei movimenti per i diritti dei gay e delle lesbiche – dice ai nostri microfoni Jochen Eisenbrand – non sarebbe stato lo stesso, per esempio, senza il fondamentale lavoro fatto da almeno due club nella New York degli anni 70. E se la Grande Mela, Chicago, Detroit, Berlino e Londra possono essere considerati i punti cardinali di questa storia non è trascurabile il ruolo rivestito da alcune seminali esperienze italiane. Continua il curatore. “Dall’inizio della nostra ricerca la scena italiana dei club storici ci è sembrata un riferimento fondamentale, soprattutto per l’imprescindibile ruolo che architetti e designer hanno avuto nella definizione degli spazi dei club, negli anni 70. Magazine come Domus e Casabella hanno saputo ospitare il dibattito attorno agli aspetti teorici connessi con quelle visioni d’avanguardia. In più a Firenze c’erano il Mac II e lo Space Electronic che hanno rappresentato degli esempi straordinari di applicazioni di quegli slanci utopici. Ecco perché abbiamo voluto creare una nuova parte della mostra con contenuti specificatamente pensati per approfondire questi aspetti”.
Assieme a film, fotografie d’epoca, manifesti, abiti e opere d’arte, la mostra propone anche una serie di installazioni luminose e sonore che accompagneranno il visitatore in un viaggio affascinante e pieno di spunti da decifrare. A completare la mostra, Konstantin Grcic e Matthias Singer hanno elaborato un’installazione musicale e luminosa, una silent disco che catapulta i visitatori nella movimentata storia della club culture. Una raccolta selezionata di copertine di dischi, tra cui i disegni di Peter Saville per Factory Records o la copertina programmatica dell’album Nightclubbing di Grace Jones, sottolinea infine le importanti relazioni tra musica e grafica nella storia delle discoteche dal 1960 a oggi. Il percorso espositivo segue un iter cronologico che prende avvio con le discoteche degli anni Sessanta, che per la prima volta trasformano il ballo in un rito collettivo da officiare in un mondo fantastico fatto di luci, suoni e colori in cui immergersi. Ci sono i luoghi della subcultura newyorchese, come l’Electric Circus, che con il suo carattere multidisciplinare influenzò anche i club europei, tra cui lo Space Electronic a Firenze concepito dal collettivo Gruppo 9999. C’è il Piper di Torino, lo spazio multifunzionale concepito da Giorgio Ceretti, Pietro Derossi e Riccardo Rosso, che con i suoi mobili modulari non solo faceva ballare, ma si prestava ottimamente anche per concerti, happening e teatro sperimentale. Il Bamba Issa, una discoteca toscana sulla spiaggia di Forte dei Marmi ideata dal Gruppo UFO, era essa stessa un teatro dell’arte. Negli anni Settanta, con l’ascesa della disco music la cultura dei club ha un nuovo impulso. Il dancefloor offre un palcoscenico ideale per performance individuali e collettive, creatori di moda come Stephen Burrows o Halston fornivano gli abiti giusti per uno stile sfavillante. Lo Studio 54, aperto a New York nel 1977, diviene un luogo d’incontro molto amato dagli idoli del culto delle celebrità. Due anni dopo, il film Saturday Night Fever segnà il culmine della commercializzazione del movimento disco che, invece, era nato nata in club e bar frequentati dalla comunità LGBTQ+ e nera ma anche latinoamericana, marginalizzate dalla maggioranza bianca e eterosessuale, in modo assolutamente politicizzato e con una forte connotazione sociale come un fenomeno underground, poi traghettato attraverso locali come il Paradise Garage – gay club che per primo rompe le regole della discriminazione razziale − verso la cultura di massa. Non a caso, i contro-movimenti come quello culminato con la Disco Demolition Night di Chicago (1979) diedero voce a tendenze reazionarie, in parte caratterizzate da omofobia e razzismo. Contemporaneamente, discoteche come il Mudd Club o l’Area di New York, fondendo vita notturna e arte, offrivano nuove opportunità ai giovani artisti emergenti come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, mentre nei club londinesi come Blitz e Taboo, con i New Romantics nacquero un nuovo stile musica e una nuova moda dalla quale sarebbe emersa la stilista Vivienne Westwood. A Manchester l’architetto e designer Ben Kelly progetta una cattedrale del rave postindustriale, la mitica Haçienda (1982), cofinanziato, tra l’altro, dalla band britannica New Order. Da qui l’acid house, un sottogenere della musica house, partè alla conquista della Gran Bretagna. La scena berlinese dei primi anni Novanta cresce attorno a discoteche come Tresor, dando nuova vita a spazi abbandonati e deteriorati, scoperti dopo la caduta del muro. Anche il Berghain, aperto nel 2004 in una vecchia centrale termoelettrica, dimostra che una scena disco vivace si sviluppa soprattutto dove ci sono gli spazi urbani necessari. Dagli anni 2000, lo sviluppo della club culture si fa più complesso: da un lato è in forte ripresa e in continua espansione, appropriata da marchi e festival di musica globali, dall’altro, molti club sono spinti fuori dai contesti urbani. Nel frattempo, però, è cresciuta una nuova generazione di architetti che si confronta nuovamente con la tipologia del locale notturno: tra questi, lo studio olandese OMA di Rem Koolhaas propone un nuovo concept per una delle discoteche più famose del mondo, il Ministry of Sound II di Londra, definendo le caratteristiche del club del Ventunesimo secolo. “Oggi per i club è diventato molto più difficile essere dei luoghi speciali, con un ruolo di avanguardia – ammette Eisenbrand – anche a causa della rivoluzione digitale. Prima dovevi per forza andare in un club per sentire della nuova musica. Ora ce l’hai ovunque attorno a te, sul tuo telefono. Prima, ciò che accadeva nel club restava nel club, ora tutto viene forzatamente documentato con foto, video, post, instagram stories etc… Un’altra delle ragioni per la attuale crisi dei club credo risieda nell’esplosione del fenomeno festival, nei quali nell’arco di una giornata puoi vedere e sentire decine di dj, uno dopo l’altro. Difficile per i club poter competere con qualcosa del genere”. Staremo a vedere: il futuro del clubbing è ancora tutto da scrivere.
L’intervista di Giustina Terenzi ad Andrea Mi: https://www.controradio.it/podcast/my-fever-suoni-e-voci-della-club-culture-intervista-ad-andrea-mi/