FENOGLIO Beppe, Una questione privata, Einaudi
MENEGHELLO Luigi, I piccoli maestri, Rizzoli
[Due gioielli, i due libri più belli sulla Resistenza italiana contro il nazifascismo. I
più belli e i più veri perché antiretorici e anti eroici per una precisa scelta
ideologica. Raccontano la storia di una generazione di ragazzi e di giovani che,
allevati ed educati sotto la dittatura, dopo l’8 settembre 1943 scelgono di
imbracciare le armi, di salire sui monti («Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci
siamo sentiti veramente liberi») e di battersi contro fascisti e tedeschi invasori. A
tutti i costi, anche a quello della vita. Ma vengono ritratti e raccontati per quello
che sono, questi giovani: senza abbellimenti, ipocrisie o trionfalismi; vengono
ritratti e raccontati con le loro paure e ingenuità, il coraggio e la sventatezza della
gioventù, con le loro passioni e i loro disincanti, le speranze e le debolezze, le
vigliaccherie e la determinazione.
È una questione personale, privata appunto, quella che assilla e ossessiona il
partigiano Milton e lo spinge a percorrere senza pace le colline intorno ad Alba
alla ricerca di un repubblichino o di un tedesco da catturare. Non per ucciderli, ma
per proporre uno scambio di prigionieri. Milton infatti vuole riuscire a liberare
Giorgio Clerici, partigiano suo amico catturato dai fascisti in un rastrellamento dei
fascisti. Il motivo? Vuole sapere da Giorgio se ha avuto o meno una relazione con
Fulvia, la ragazza di cui lui è innamorato perso, che ha a lungo e invano
corteggiato e alla quale donava libri e dischi – per esempio quello con Over the
Rainbow, la canzone lanciata da Judy Garland nel film Il Mago di Oz) – e inviava
lettere bellissime (una cominciava così: «Fulvia splendore…»; un’altra invece:
«Fulvia dannazione…»).
Di Una questione privata Italo Calvino ha scritto che «fu il più solitario di tutti che
riuscì a fare sulla Resistenza il romanzo che tutti avevamo sognato, quando
nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a
finirlo, e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni».
«— Tòrnaci. Se te la senti, tòrnaci. Ma sappi che ogni volta che passeranno con
camion e mitraglie e cani per quelle colline dove tu sarai, io mi sentirò morire. Ora
vai.
Abbraccio mia madre, non stretta, che non senta col petto la pistola che mi sforma
una tasca. Scendo nel prestìno, lo traverso. Alla porta il fornaio di Bellonuovo mi
mette la mano nella mano e in tasca un cotechino incartato. Gli sono grato che
non mi parla di rifletterci bene, pesto i piedi per aggiustarli negli scarponi, e vado.
È già buio e molto freddo. Non c’è luna, ma spunterà? Risalgo la provinciale Alba-
Acqui per un duecento metri, taglio in un prato in salita e sono sulla stradina di s.
Rocco. Lì stacco il mio bel passo da campagna; paiono viaggiare con me le
colline alla mia destra, che guardano la mia piccola città tenuta da loro. Ci vive la
ragazza di cui sono, sarò sempre innamorato. Se ora almeno non fossi
innamorato, o se piuttosto questa bellissima mi desse speranze. A non voler
staccar gli occhi da quelle colline, mi trovo con un piede sul vuoto del fossato. Mi
riporto in metà della strada con uno scossone. Ma l’amore si fa ripensare. Se
m’ammazzano, posso sperare che lei senta qualcosa rompersi dentro e venga su
per le colline a cercarmi tra amici e nemici, ululando come una lupa? Mi ritroverà
lungo, lunghissimo sopra la neve e mi bacerà tra sangue e gelo Come cammino
forte! Ma sono proprio pazzo di lei se per lei dimentico mia madre…» (da Appunti
partigiani, p. 3).
«”Scommetto che avete fatto gli atti di valore.” “Macché atti di valore. Non
eravamo mica buoni, a fare la guerra.”»: una battuta fulminante all’inizio dei
Piccoli maestri restituisce, in una sola pennellata, sapore e colore di una tragedia
collettiva che per il narratore e il suo gruppo di compagni si trasforma in
apprendistato alla vita. Subito dopo l’8 settembre 1943 uno sparuto gruppo di
studenti vicentini, guidato da un giovane professore antifascista, Antonio Giuriolo
soprannominato dai suoi discepoli Capitan Toni, si dà alla macchia sull’altopiano
di Asiago per tentare di organizzare la Resistenza. La voce narrante – auto
ironica, commossa e marcatamente autobiografica – dipana un lungo filo di
agguati, rastrellamenti, uccisioni, “fughe” e “atti di valore” di cui i ragazzi si
rendono protagonisti e vittime. Opera di grande equilibrio, frutto anche della
distanza tra il tempo della scrittura e quello dell’esperienza (il libro uscì nel 1964),
I piccoli maestri dona corpo e parola a personaggi indimenticabili ed è
unanimemente riconosciuto come un gioiello nel panorama della letteratura
contemporanea.
Di Fenoglio (1922-1963) consiglio anche quel capolavoro (anche per le numerose
inserzioni, all’interno di un italiano di elevata qualità, di lemmi e frasi inglesi, lingua
e letteratura di cui Beppe era un appassionato cultore) che è Il partigiano Johnny;
e poi I ventitrè giorni della città di Alba (con un incipit indimenticabile: «Alba la
presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre»), ma
anche i racconti di La malora, il romanzo breve L’imboscata e gli Appunti partigiani
1944-1945. Tutti disponibili per i tipi di Einaudi.
Di Meneghello (1922-2007) suggerisco anche Libera nos a Malo (autobiografia
dell’autore da cucciolo con il titolo che gioca ironicamente tra la giaculatoria
religiosa e il nome del comune di nascita di Meneghello, Malo appunto, nel
Vicentino) e Fiori italiani (che, scritto in terza persona, è la storia dell’educazione
fascista e clericale ricevuta da un’intera generazione di giovani italiani. Come per
Il partigiano Johnny di Fenoglio anche Fiori italiani si segnala per l’impasto
linguistico che mescola il dialetto del paese, l’italiano illustre del liceo classico e
l’inglese degli studi e della vita in Inghilterra, a Reading dove insegnò dal ‘47
all’età della pensione nel dipartimento di italianistica di quella università)).
Entrambi i libri sono pubblicati da Rizzoli.
Ora e sempre Resistenza.