Oggi inizia la 137esima edizione del torneo di Wimbledon, il più antico e prestigioso torneo di tennis istituito nel 1877 dall’All England Lawn Tennis and Croquet Club.
Neanche a farlo apposta, da poco più di una settimana AmazonPrime ha pubblicato un docufilm biografico dedicato al “Re” di Wimbledon, Roger Federer, che sui campi in erba più famosi al mondo ha trionfato più di chiunque altro, ben 8 volte, intitolato “FEDERER: TWELVE FINAL DAYS”.Come facilmente intuibile, il film racconta gli ultimi giorni di carriera di questo campione immenso, per alcuni il più grande tennista che abbia mai calcato le scene, e probabilmente non esiste momento migliore per spendere due parole riguardo Federer se non il giorno in cui il “suo” torneo apre i battenti.
Una doverosa premessa: chi parla ha letteralmente passato notti insonni per veder giocare Federer in diretta, ha preferito rinunciare a giorni di ferie pur di vederlo volteggiare (non solo) sull’erba, ha distrutto un’auto per uscire il più velocemente possibile da un parcheggio e non perdere l’inizio di una sua ennesima finale amara al RG. E rifarebbe tutto da capo, ancor più convintamente.RF ha vinto tanto, tantissimo. Ha, come si usa dire, alzato l’asticella del possibile, dimostrando che certi record si potevano battere. E li ha battuti – aprendo la strada a chi poi, dopo di lui, ha proseguito il lavoro. Ma al di là dei freddi numeri, se ancora oggi c’è chi lo considera il GOAT (acronimo di Greatest of all time) è perché alle vittorie ha abbinato una qualità rara, patrimonio di uno sparuto gruppo di tennisti: quella di farci evadere dalla gabbia del tennis percentuale per trascinarci altrove, nei territori del gesto impossibile, apparentemente inconcepibile, capace di meravigliare. Se negli anni – il più delle volte – i colpi vincenti dei suoi grandi avversari sembravano essere la logica e fredda conseguenza di una formula scientifica vincente, rigidamente applicata al gioco (perfezione fisica, palleggio robotico, applicazione reiterata di schemi remunerativi) Federer pare essere stato l’ultimo a cercare di coniugare forma e sostanza. Facciamo fatica a ricordare delle partite – fosse un primo turno di un torneo minore o una finale slam – nelle quali lo svizzero non abbia eseguito almeno un colpo per il quale non valesse la pena scomodare la categoria del fantastico, dell’inatteso. Pur non tralasciando affatto il tentativo di vincere. Non si é mai trattato della semplice (sterile) ricerca del colpo a effetto, dell’esibizione fine a se stessa, ma di un modo “altro” di arrivare alla vittoria. Federer non è Bahrami o Kyrgios, non si sognerebbe mai di colpire la palla col manico solo per far ridere il pubblico ed è sempre stato palesemente irritato dalle sconfitte (che poi sia ben educato nell’esternarlo è un’altra questione). Il fatto è che il suo tennis si cala alla perfezione nella dicotomia “gesto contro risultato” senza scegliere l’una o l’altra opzione ma – con sublime ambizione – incarnando il tentativo di perseguirle entrambe, ribellandosi alla statisticamente provata vulnerabilità dell’atto agonistico inteso come arte creativa. Questa vulnerabilità (reale, non solo percepita) gli è sicuramente costata qualche titolo ma al tempo stesso gli ha anche regalato l’immortalità sportiva e l’amore incondizionato degli appassionati. Il nostro di sicuro.
Federer – se non il più vincente in assoluto – è stato sicuramente il più bravo della sua epoca in uno sport crudele come pochi altri, dove un inimmaginabile controbalzo eseguito in arretramento sull’erba ha lo stesso valore di un banale errore non forzato. Per questo campione gentile, maestro d’eleganza e gesti perfetti, avremmo continuato a pagare il biglietto in eterno, anche solo per un paio di “quei” colpi a partita: istanti capaci di farci rotolare dal divano (cit. Foster Wallace) e che adesso, come tossici, andiamo a ricercare su youtube dove per fortuna potremo ammirare per sempre la disarmante facilità con la quale “the King” ha dispensato per un ventennio attimi di tennis al limite del lisergico.
Attimi che, per tornare all’inizio, non troveremo – o troveremo in maniera molto limitata – in TFD, che invece si configura come un esperimento di cinema-verità focalizzato sugli ultimi suoi dodici giorni di atleta, dalla pubblicazione di una lettera dedicata ai fans di tutto il mondo diffusa dai suoi social nella quale annunciava il ritiro, fino all’ultima partita in Laver Cup, il torneo da lui inventato per omaggiare Rod Laver, fenomeno australiano di un tennis lontano, capace di realizzare per ben due volte il Grande Slam. Ultima partita, non sarebbe potuto essere altrimenti, giocata in coppia con l’amico-rivale di sempre, Rafael Nadal. Non aspettatevi statistiche, elenchi di record o una sterile vetrina di colpi ad effetto, anzi: Roger ha preferito mostrare e raccontare la propria fragilità, il suo declino come sportivo che – a causa di un infortunio – è costretto a dire basta. Si vedono lacrime, e sono lacrime vere, come quelle che – se amate questo sport – non potrete fare a meno di versare. Buona visione, e naturalmente buon Wimbledon.
Noi ci risentiremo con BATTI LEI dopo la pausa estiva.