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Formato Cartaceo del 26 febbraio 2023

WILLIAMS Niall, Questa è la felicità, Neri Pozza
[Il primo capitolo del romanzo consta di quattro parole: «Aveva smesso di
piovere». L’ultimo, il 43°, si chiude con cinque parole: «Si era messo a piovere».
Nel mezzo va in scena la vita della comunità del piccolo villaggio di Faha, contea di
Kerry («il posto dove esistono più parole che in qualunque altro posto per
qualificare gli idioti» e dove «vivevi in base all’orologio del tuo stomaco, tornavi a
casa solo quando avevi fame e mangiavi qualunque cosa ti piazzassero davanti
per poi correre di nuovo fuori, consapevole solo in parte del privilegio della
solitudine e del dono del tempo») sulla costa occidentale irlandese. La pioggia,
diventata una condizione esistenziale (ricordate l’incipit memorabile di uno dei
capitoli più esilaranti di Cent’anni di solitudine: «Piovve per quattro anni, undici
mesi e due giorni»?) e i lavori per l’installazione dell’elettricità nel paese fanno da
cornice a questo libro comico e struggente.
Per invogliarvi a leggerlo, questo libro straordinario, sarei quasi tentato di
ricopiare integralmente almeno due capitoli: il 2° con la descrizione delle modalità
e dell’ordine (non scritto, ma inviolabile) secondo i quali i parrocchiani
giungevano alla chiesa parrocchiale e poi vi prendevano posto per assistere alla
messa domenicale («In attesa della messa, la congregazione condivideva una
delle gioie caratteristiche dell’umanità intera, quella di guardarsi»); e il 35° (pp.
342-353) con il racconto di come al cinema Mars avviene il primo bacio tra il
giovanissimo protagonista, Noel, e la ragazzina di cui è perdutamente innamorato
(«Ero un dilettante in amore, e incorsi nella sorte di tutti dilettanti, quella di
commettere ogni sbaglio possibile»).
So che non lo posso fare e quindi proverò a darvi qualche citazione testuale a mo’
di antipasto con la speranza di stuzzicare il vostro appetito e indurvi a fare un
pasto intero!
Prima però uno sguardo generale alla storia raccontata da Williams.
La pioggia è cessata. Nessuno, nel piccolo e dimenticato villaggio di Faha, ricorda
quando è cominciata. Sulla costa occidentale irlandese la pioggia è una
condizione esistenziale: scende diritta e di sghimbescio, presentandosi in veste di
pioggerella, di acquerugiola, di bruma, di acquazzoni frequenti e di nebbia
bagnata; arriva a ogni ora del giorno e della notte, in tutte le stagioni, senza
badare al calendario né alle previsioni meteorologiche, tramutando il suolo in
fango e l’aria in un sipario.
Ma ora che non piove più, nessuno sembra essersene accorto. Forse perché è
successo subito dopo le 15 del Mercoledí Santo, e l’intera parrocchia è stipata
nella chiesa di Santa Cecilia, dove padre Coffey, il viceparroco, pallido e sottile
come un’ostia, sta annunciando l’arrivo dell’elettricità.
Faha è infatti un luogo in cui, 78 anni dopo l’accensione della prima lampada ad
arco davanti agli uffici del Freeman’s Journal di Princes Street a Dublino, e a 70
anni da quando è stata inaugurata l’illuminazione elettrica delle strade, manca
ancora l’elettricità.
Quel pomeriggio del Mercoledì Santo il diciassettenne Noel Crowe, arrivato in
treno da Dublino per trascorrere le vacanze nella casa dei nonni Doady e Ganga,
si affaccia sulla soglia in quei primi istanti di cessazione della pioggia, ed è allora
che scorge un uomo entrare in cortile a passo vivace, con una piccola valigia al
fianco. Noel non può saperlo, ma quello straniero, Christy, lo Sheherazade del

paese («a Faha il desiderio di far parte di una bella storia è insaziabile»), lascerà
un’impronta profonda nella sua vita, allo stesso modo in cui l’elettricità è destinata
a stravolgere un mondo che per secoli è rimasto sempre uguale a sé stesso.
Nel nuovo, incantevole romanzo dell’autore di Storia della pioggia, c’è il
commovente ritratto di una comunità, delle sue idiosincrasie e delle sue tradizioni,
dei suoi paradossi e delle sue inanità, dei suoi fallimenti e dei suoi trionfi.
«(Il giovane Noel aveva la classica impazienza dei giovani che vogliono
sempre qualcosa di più dalla vita, senza ancora rendersi conto che la vita è fatta
di quei più. E quando si è giovani, la vita non vissuta in noi, tutto quel futuro,
incalzante e irraggiungibile, può diventare insopportabile. “Ero giovane, dovete
sapere. Tutto avventatezza e inflessibilità. Argentei concetti assoluti nel taschino e
un pentacolo sullo scudo”».
«La chiesa era stracolma, il numero dei parrocchiani aumentato dalla presenza
di alcuni tecnici dell’azienda elettrica alloggiati in zona, che, grazie al doppio
merito di essere forestieri e di lavorare con i cavi conduttori, innescarono una
corrente di eccitazione tra le donne presenti, alcune delle quali, credo, trovarono
poi tra loro la propria messa a terra».
«La figura incredibilmente esile e pallida di Jo Ryan scivolò all’interno e si
fermò appena al di qua della porta. Aveva un aspetto abbattuto, la bocca piccola e
sensibile, e la timidezza e la vergogna di chi intuisce che le cicatrici sulla propria
anima sono visibili. A 30 anni Jo era caduta vittima del detto fasullo secondo il
quale un cattivo marito è meglio di niente, e aveva sposato Pat, una carogna che
a quest’ora arrostisce in qualche punto dell’inferno».
«Non ho mai conosciuto un uomo o una donna resi migliori dall’uniforme (o dai
gradi sulla manica, aggiungo io). Ho notato che erano diversi indossandola, ma
non più umani».
«Eravamo vicini alla sommità della collina: una delle ragazze Kilkenny stava
sollevando e stendendo sul filo un lenzuolo bianco, con una grazia che nella sua
semplicità e bellezza non andò perduta per me. Lo vedo ancora sventolare nel
ricordo».
«Che gli esseri umani s’innamorassero veramente una sola volta nella vita era
un dogma non scritto ai tempi della gioventù del mondo, un’idea promossa dalla
Chiesa e suffragata dall’imminente consapevolezza dei traumi del cuore nonché
dalla bancarella di libri di Spellissey, i cui romanzi sentimentali di seconda mano
decantavano tutti il Primo Amore. Gli amori successivi si scrivevano con la
minuscola: esistevano, sì, ma appartenevano al lessico della debolezza maschile,
per la quale il fondoschiena di una donna costituiva un baluardo contro la
solitudine e la pancia vuota faceva uscire belle parole dalla bocca di un uomo…».
«Ma Doady esibì una nuova conferma della verità universale secondo cui un
uomo diventa più interessante agli occhi di una donna se dimostra di possedere
un cuore».
«E adesso Christy ci stava mettendo l’anima. Quella sua totale abnegazione gli
aveva regalato 5 centimetri di statura. Cinque centimetri che non sapeva di avere,
ma che abbiamo tutti, ripiegati nel borsellino del cuore».
«Non posso biasimarlo per aver aggiunto a tutto ciò il sentimentalismo della
vecchiaia. Trascorriamo buona parte della vita a guardarci dagli eccessi emotivi:

arrivato alla mia età, ho smesso di farlo. Ormai ho raggiunto un’età in cui la
mattina presto sono spesso rivisitato da tutti i i miei errori, dai miei gesti stupidi e
dalle cattiverie commesse senza volerlo. Si siedono intorno al mio letto e mi
guardano in silenzio. Ma io li vedo, eccome».
«Forse grazie al fascino primitivo, ma profondo, legato all’atto di accordare, o
forse per la misteriosa attrattiva esercitata da chi si occupa, anche marginalmente,
di musica, correva voce che (Hartigan, l’accordatore di pianoforti) avesse una
lunga sfilza di amanti e di relazioni illecite, tutte nonostante il suo aspetto e tutte a
riprova degli ignoti abissi dell’animo femminile».
«Ascoltammo tre musicisti, due uomini anziani e una donna di età imprecisata
che suonavano la concertina. La loro abilità naturale dava l’impressione che la
musica non richiedesse alcun apprendimento. E che non appartenesse a
nessuno. Le melodie erano nell’aria. Appartenevano ai suonatori nella stessa
misura in cui ci appartengono i campi, i giunchi, la pioggia. Erano persone del
posto, e ne possedevano la povertà e la ricchezza. E forse per il groviglio di
emozioni che provavo quella sera, nessuna delle quali riusciva a trovare uno
sbocco verbale, più i musicisti suonavano, più mi colpiva l’idea che la musica
irlandese fosse un linguaggio a sé stante, capace di esprimere estasi, rapimento,
spensieratezza e gioia, ma anche tristezza e malinconia e dolore per la perdita, e
che nei suoi ritmi e nelle sue ripetizioni contenesse le tracce della storia
dell’umanità e del suo continuo girare in cerchio. In un certo senso, suppongo, è
quello che sto cercando di fare qui».
Caro lettore, ormai dovresti saperlo anche tu, no?, «che la capacità di accettare le
cose è uno dei segreti della felicità».]

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