MAIERON Luigi, Te lo giuro sul cielo, chiarelettere
«”Sei sicura che vuoi imparare? Sicura che non buttiamo via i soldi?”. La piccola
rispondeva con tanti sì. “Non consumiamo i soldi per niente, te lo giuro, pari
[papà in lingua friulana], te lo giuro sul cielo, credimi, pari”». La bambina che fin
da piccolissima aveva mostrato interesse e poi passione per la musica e che
rassicura il padre, incerto se comperarle o meno una piccola fisarmonica della
Bagnini al costo di 32mila lire da pagare in rate mensili di 2mila lire, è Cecilia
Boschetti, la protagonista del libro, e Maieron è suo figlio. E la fisarmonica è la sua
vita.
Indomita e ribelle, grintosa e appassionata, Cecilia è un fiume in piena
incontenibile; fin da ragazza sfugge ai soffocanti cliché della sua terra – la Carnia
degli anni ’50 e ’60 del ‘900 – che vorrebbero la donna moglie sottomessa
ubbidiente e madre accudente. Lei – prima donna di Carnia a suonare la
fisarmonica (da autodidatta), prima donna di Carnia a condurre una Gilera con la
quale gettarsi a rotta di collo per tornanti e sterrati di montagna – è il personaggio
attorno al quale, con mano delicata e leggera e con una pietas che comprende e
assolve, il figlio Luigi racconta l’epopea di un piccolo mondo antico (e ormai
perduto) e di una schiera di musicanti di montagna, riportandoci indietro nel
tempo tra le montagne della Carnia, in Friuli, in un paese minuscolo, Cercivento, il
cui nome significa «circondato dai venti», un posto dove «l’acqua delle fontane ha
sapore di neve», una terra dove «le strade della formazione erano in salita e le
discese sempre molto ripide».
«Il cielo di Carnia è molto piovoso, custodisce ogni lacrima versata e ci tiene a
spiegare che il pianto interrompe il nostro allenamento alla durezza. Ferma il
viaggio verso il paese dei sentimenti di pietra, il posto dove la fragilità è bandita e
non sono concesse debolezze. Alle sue pietre aguzze, alle sue lame di pietra, le
lacrime dicono di no. Ci vogliono vivi, portano fuori a gocce il mare d’angoscia che
abbiamo dentro. Vigilano che non si superi il livello di guardia. Ma sono anche il
liquido amniotico di una rinascita, uno strato d’acqua per tenerci a galla».
Indimenticabile Cecilia, ma indimenticabile anche la galleria di personaggi e
comprimari che le fanno da contorno: Augusta, Pio, Genesio, la comare Teresine,
Nodâl; Pakai secondo cui non esisteva musica astemia ed era comunque preferibile
affidarsi non al buonsenso ma al principio del tignisi bevûts [stare bevuti]; Toni
Frescura e il suo strampalato paradiso, Chechi, Anna, Nêl, il maestro Steno
Sandoli, Agnul Murose sempre con le mani a frugare sotto le sottane delle donne…
«Erano abituate a pretendere molto da sé stesse, le donne di Carnia, a essere
pazienti e tenaci, a vincere le battaglie senza azioni vistose. Si muovevano con
cautela, attente ai segni che la vita lasciava e pronte a qualsiasi impresa». «(…) la
legge dei monti non accetta il peso del risentimento. La fatica serve a imparare che
i pesi si portano con le braccia, e che bastano quelli: è mille volte meglio, fare,
sbrigare, faticare che trascinarsi dietro rancori, guai, accumulare gravame
sull’anima e dentro al cuore. È già troppo impegnativo il viaggio. (…) Si perdonano
le azioni cattive, ma non si dimenticano. (…) Una famiglia non era serena se non lo
erano anche le altre. Le loro armi erano i rastrelli, le zappe, le gerle. Combattevano
per l’essenziale, bastava. I loro cuori semplici si allenavano a rafforzare i
sentimenti. (…) Erano duri, nascondevano i pianti, le ferite mal curate. Ma erano
colmi di saggezza, quella saggezza che li portava a vivere e anche ad accettare la
morte con serenità. Dietro quei visi rugosi era passata la vita vera. Le loro mani
non erano riuscite a fermarne granché, occupate in tanti mestieri di fatica si erano
rovinate a poco a poco. Non sapevano accarezzare, ma erano pronte ad aiutare, a
lavorare anche per te».
Ma Te lo giuro sul cielo è anche un romanzo di formazione, la storia dell’autore da
cucciolo e poi da adolescente alla scoperta dell’amore e del sesso e che seguirà ben
presto le orme del nonno e della mamma diventando un cantautore pluripremiato:
«La musica ci disarmava, ci dava un senso di appartenenza. Le parole e la melodia
entravano come carezze nella nostra adolescenza. [La musica] raggiungeva i nostri
cuori, scendeva in profondità. Ci raccontava la vita usando altre parole. Ci parlava
di indipendenza, si sostituiva alle nostre famiglie che resistevano anche nelle
bufere, ma non avevano risposte per le inquietudini. La musica non eseguiva
soltanto note, ma raccontava la saggezza della montagna, le speranze delle
persone, la capacità di soffrire».
E allora: «Ju fu fui, ju fu fui, ju fu fui…»