C’era anche, anzi c’era soprattutto lui, Matteo Messina Denaro, alla riunione in un villino di Santa Flavia, in provincia di Palermo, quando nel corso di una riunione di Cosa Nostra venne deciso di compiere l’attentato a Firenze del 27 maggio 1993. Obiettivo dichiarato: far saltare gli Uffizi.
Poi per motivi logistici il Fiat Fiorino carico di un quintale di tritolo fu parcheggiato nelle vicinanze, in via dei Georgofili: una stradina semisconosciuta ai più ed il cui nome è ormai indissolubilmente legato a quella strage che costò la vita a cinque persone. La ricostruzione è del pentito Gaspare Spatuzza. Anche Spatuzza era a quella riunione, insieme ai mafiosi Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Francesco Tagliavia e, appunto Matteo Messina Denaro.
Le verifiche fatte una dozzina di anni fa da investigatori ed inquirenti aggiunsero così un ulteriore tassello per ricostruire il più grave degli attentati mafiosi del ’93 che colpirono anche Milano e Roma. Allora Matteo Messina Denaro, arrestato in una clinica privata palermitana, era già l’ideologo di quel livello inedito di scontro con lo Stato. Se gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un anno prima, avevano già l’impronta del superlatitante, il passaggio a colpire non più solo uomini delle istituzioni ma opere d’arte o comuni cittadini – come per fortuna non avvenne allo Stadio Olimpico di Roma in quella che avrebbe potuto essere una carneficina – fu una mossa strategica di Cosa Nostra, studiata a tavolino.
Non più omicidi mirati ma veri e propri atti di guerra per rispondere anche all’irrigidimento delle misure carcerarie e alla spinta che le indagini avevano avuto in quegli anni secondo l’intuizione di Falcone e cioè quella di “seguire i soldi” per raggiungere chi tirava le fila di un’organizzazione criminale che pareva invincibile.
Messina Denaro, come coloro i quali parteciparono a quella riunione e a molti altri, è stato condannato anche per quegli attentati grazie al lavoro di due magistrati che coordinarono le indagini, Gabriele Chelazzi, poi prematuramente scomparso, e Giuseppe Nicolosi, oggi Procuratore a Prato, entrambi allora in forza alla Procura di Firenze.
Un lavoro minuzioso che non si limitò a seguire la pista dei soldi ma che fu anche affidato a dettagliati riscontri di chi, come e quando si occupò di imbottire il furgoncino fatto esplodere in via dei Georgofili, o a verificare ogni dettaglio del racconto di pentiti – categoria già allora non nuova ad episodi di pesanti depistaggi – fino alle condanne in cui, oltre a Messina Denaro e ai suoi commensali di quella sera a Santa Flavia, figurano altri nomi di spicco come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Ma anche prima degli arresti dei due capi, la figura di Matteo Messina Denaro era già in primo piano nella gerarchia criminale di Cosa Nostra. Se serviva una prova ulteriore questa è sotto gli occhi di tutti con una latitanza durata più di 30 anni.
Solo chi poteva contare su una rete di protezione formidabile poteva affrontarla, beffando anche gli investigatori più esperti e raffinati. Ora che è stato preso ci sarà da lavorare per fare affiorare questo sistema di protezione e smantellarlo. A meno che… A meno che la sua cattura non sia stata in qualche modo “facilitata” anche da una smagliatura di questa rete dalla quale si può anche fare uscire un vecchio pesce ormai vicino all’essere inutile. E tutto questo, sia chiaro, senza togliere un grammo al valore e alla tenacia di chi per tre decenni ha inseguito questo arresto.
Ma così come, esattamente 30 anni fa (casualità delle date, era il 15 gennaio 1993), le manette a Totò Riina segnarono il passaggio dello scettro di comando ad un’altra generazione di mafiosi, non è da escludere che anche l’arresto di Messina Denaro segni adesso un altro cambio di guida ai vertici di Cosa Nostra. Lui è in carcere, lei non è ancora completamente spazzata via.