Un disco che si differenzia dai precedenti lavori della Van Etten, scritto e registrato per la prima volta in totale collaborazione con la sua band, il lavoro mostra una inconsueta libertà creativa ed un sound decisamente più inglese.
Nata in Ohio ma trasferita a New York in giovane età, Sharon Van Etten si è affermata come una delle migliori cantautori della scena musicale indipendente.
Dopo sei album da solista intensamente personali, questo è il primo album che Sharon abbia mai scritto e registrato con la sua band, Jorge Balbi (batteria, macchine), Devra Hoff (basso, voce) e Teeny Lieberson (synth, piano, chitarra, voce), una creazione collettiva che le ha concesso una inedita libertà e varietà compositiva.
Questo nuovo approccio è iniziato mentre provava nel deserto per un tour imminente quando, nelle parole della stessa Van Etten, “Per la prima volta nella mia vita ho chiesto alla band se potevamo semplicemente provare ad improvvisare. Parole che non sono mai uscite dalla mia bocca, mai! Ma mi piacevano tutti i suoni che stavamo ottenendo. Ero curiosa di cosa sarebbe successo. In un’ora abbiamo scritto due canzoni che hanno finito per diventare I Can’t Imagine e Southern Life”.
Il nome della band e dell’intero progetto è un riferimento ironico alla ricerca psicologica sui legami emotivi formati tra individui, in particolare neonati e le loro madri. Van Etten è infatti madre di un bambino di sette anni e ha lavorato a intermittenza per ottenere una laurea in psicologia con l’intenzione di diventare terapeuta.
Nei testi si affronta il tema della complessità delle relazioni (un tema ricorrente nella sua musica) e l’inevitabile connessione della genitorialità con lo spettro della mortalità, ma si riflette sulla necessità un diverso tipo “inclusione” nell’America post-elettorale: il desiderio di coesistere con quelli che incrociano la nostra vita le cui prospettive sociali e politiche sono antitetiche alle nostre.
L’album, anticipato dai singoli ‘Afterile’, ‘Trouble’ e ‘Southern Life’, è stato registrato a Londra presso l’ex studio di Eurythmics, The Church, con la produttrice Marta Salogni, meglio conosciuta per il suo lavoro con Bjorl, Bon Iver, Animal Collective e altri, che è stata vitale per la creazione del disco, grazie al “suo amore per i synth e il senso dell’avventura” utile ad “abbracciare l’oscurità e i suoni unici che avevamo affinato nel processo di scrittura”, commenta Van Etten.
Il risultato è un abbinamento perfetto per il mix di elettronica e le texture analogiche della band. Un album di gran classe, in cui l’atmosfera è oscura, ma non depressiva, piuttosto solenne, “celebrativa”, in una funzione di cui Sharon è la sacerdotessa celebrante, tra echi anni ’80 di goth, electro, synth pop, rimandi a Depeche Mode, Siouxie, John Fox, Kate Bush, guidata dalle melodie vocali tipicamente “folk” della Van Etten.
La band intanto ha annunciato un tour mondiale, che prenderà il via a Oslo il 28 febbraio e si aprirà a Glasgow il 12 marzo, con fermate a Berlino, Parigi e Londra. Nessuna data italiana è per ora annunciata.
“Sharon Van Etten & The Attachment Theory” è il nostro Disco della Settimana.