L’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose alle cave apuane si allarga e coinvolge l’ex Pm di Palermo e attuale presidente del Tribunale del Vaticano Pignatone. Avrebbe ignorato le indagini su Cosa Nostra e gli appalti, partite dalla procura di Massa.
Sembra davvero di fare un salto indietro negli anni più bui della Repubblica. 1992, Tangentopoli, le stragi di mafia, le inchieste della magistratura. Tutto partì dalla Procura di Massa e dall’inchiesta del procuratore Augusto Lama sulle infiltrazioni della mafia nel sistema cave. Indagine confluita nel procedimento mafia-appalti, che vedeva l’intreccio criminalità, impresa, politica. Un’indagine strategica, perché raccontava della trasformazione di Cosa nostra, e della sua capacità di farsi impresa, entrando negli appalti siciliani e riciclando nel sistema cave. Ma la parte toscana dell’indagine venne trascurata e questo rallentò quel procedimento tanto fondamentale da essere riconosciuto come il vero movente della strage di via D’Amelio quando il 19 luglio di quel fatidico 1992 venne ucciso Paolo Borsellino e tutta la sua scorta. Ora per questo presunto insabbiamento è indagato anche l’ex Procuratore di Palermo, Roma e Reggio Calabria ed attuale presidente del Tribunale Vaticano Giuseppe Pignatone. I protagonisti si chiamavano Nino e Salvatore Buscemi, il Gruppo Ferruzzi guidato da Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta, Lorenzo Bini, il politico democristiano Ernesto Di Fresco. La Procura di Caltanissetta dice che Pignatone, quando era a Palermo, con i colleghi Pietro Giammanco (nel frattempo deceduto), Gioacchino Natoli e il capitano della Guardia di Finanza (ora Generale) Stefano Screpanti, avrebbero finto di investigare sulla segnalazione venuta da Massa, anzi avrebbero aiutato i sospetti ad eludere le investigazioni. Accuse gravissime, respinte da Pignatone, che riguardano una storia di più di trent’anni fa a cui fatichiamo ancora a mettere la parola fine.