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Sollicciano: la sconfitta di tutti

Sono fatti rientrare nelle celle, nel corso della notte, i detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano, circa una ottantina, che ieri hanno dato vita a una forte protesta, anche appiccando le fiamme, dopo il suicidio di un recluso ventenne di origine tunisina.

L’altra notte a Firenze abbiamo perso tutti. Anche se qualcuno, un po’ di più. Prima di tutto ha perso un ragazzo di 20 anni che si è tolto la vita perché la vita era diventata insopportabile e la morte una liberazione. Così come è accaduto a Livorno nelle stesse ore, dove un detenuto che aveva tentato il suicidio nei giorni scorsi, alla fine è morto. Loro hanno perso tutto quello che avevano, la loro vita. E – a metà anno – siamo già a 47 (48, 50?). Poi hanno perso le istituzioni, a tutti i livelli, che continuano a non avere il coraggio di mettere le mani lì dove non si conquistano voti e non si diventa virali da nessuna parte. Hanno perso i detenuti, che hanno passato la notte a bruciare lenzuola e i vigili del fuoco che cercavano di spegnerli. Hanno perso i volontari e i progetti di umanizzazione del carcere, gli operatori e gli agenti di Polizia penitenziaria. Hanno perso i sindaci e le forze dell’ordine, i magistrati e i direttori, i familiari dei detenuti e le vittime dei reati di quei detenuti. Hanno perso i garanti e i dirigenti. Hanno perso i giornalisti, pronti a scattare la foto migliore, a fare il video migliore, io tra loro. Per poi passare domani alla prossima storia. Ha perso la città tutta, che non si è accorta di niente. Ha perso, solo che non lo sa. Il carcere di Sollicciano è una struttura fatiscente, vocato ad una forma intrinseca di tortura. Sovraffollato, con una cronica emergenza idrica che d’estate diventa ingestibile, come il caldo asfissiante. Le tubature sono troppo vecchie e se la pressione aumenta, scoppiano, allagando interi reparti. E allora i detenuti vengono trasferiti in altri reparti già allagati in passato, ora divorati dalla muffa e dalle cimici. Sollicciano è oggi un inferno. Che fa desiderare la morte. Sei mesi fa i magistrati di sorveglianza avevano dichiarato Sollicciano umanamente “inumano e degradante”. Dal “giudiziario”, dove ci sono i “definitivi” e dove un ragazzo di 20 anni ha deciso di impiccarsi, perché così la vita smetteva di fare male, penzolavano le lenzuola bruciate, che illuminavano la struttura. La gru dei pompieri sparava acqua (finalmente, l’acqua), un elicottero volteggiava puntando un faro potente sulle anguste finestrelle sbarrate, Carabinieri e Polizia presidiavano l’area, una decina di ragazze (ragazze) con in mano un megafono gridavano “libertà”, insieme ai detenuti che sbattevano tutto quello che avevano contro le sbarre, e poi i familiari dei detenuti. Guardavano attoniti, con lo sguardo verso l’alto, pensando ai propri figli e mariti. Donne in ciabatte e vestaglie, con in braccio il figlio piccolo addormentato e lo sguardo perso, verso l’alto ma in realtà nel vuoto. Sollicciano brucia ed è bene che sia così. Finalmente. La rivolta, la protesta, era necessaria. Perché le parole ha strafatto il loro tempo. Perché una città come Firenze non può immaginare di essere ferma – da questo punto di vista – al Settecento. Perché tra il modello norvegese e quello messicano, noi abbiamo scelto quest’ultimo. Perché chiunque tratti degli esseri umani, qualunque cosa abbiano fatto, qualunque reato abbiano commesso, come accade a Sollicciano e nelle carceri italiane, merita la rivolta. E nessuno ha il coraggio di dire che il carcere non andrebbe umanizzato, ma abolito, perché è un’invenzione superata dalla storia, vecchia, dannosa per tutti. Altro che rieducazione. Nel Settecento Voltaire diceva che «il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri». Ecco, noi nella notte trascorsa davanti al cercare di Sollicciano, Firenze, 2024, abbiamo misurato il grado della nostra civiltà. E per questo abbiamo perso tutti, ma proprio tutti. Anche se qualcuno, un po’ di più.

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