Due occupati su tre che lavorano con contratti part-time nella ristorazione in Toscana non hanno scelto, ma subiscono l’orario ridotto: a dirlo sono i risultati di un’indagine svolta da Istel e Fisascat–Cisl Toscana su un campione di 130 addetti, in grandissima parte donne. Il dato è emerso durante i lavori del convegno dedicato al ‘Part-time involontario nel settore turistico” che si è tenuto ieri a Firenze.
Due occupati su tre che lavorano con contratti part-time nella ristorazione in Toscana non hanno scelto, ma subiscono l’orario ridotto: a dirlo sono i risultati di un’indagine svolta da Istel e Fisascat-Cisl Toscana su un campione di 130 addetti, in grandissima parte donne. Il dato è emerso durante i lavori del convegno dedicato al ‘Part-time involontario nel settore turistico” che il sindacato Cisl del settore commercio, turismo, servizi ha organizzato ieri a Firenze, insieme all’EBTT (Ente bilaterale turismo toscano). Il part-time espone al rischio di povertà lavorativa, soprattutto se non è scelto dal lavoratore, ma imposto; da qui la volontà del sindacato di richiamare l’attenzione sul fenomeno (molto presente nel settore turistico) e cercare possibili soluzioni.
In Toscana, è stato spiegato, l’incidenza del part-time è del 19,7% sul totale degli occupati, oltre due punti percentuali in più rispetto alla media nazionale: 248 mila donne (il 77,4% del totale e per cui è una modalità di lavoro diffusa in tutte le fasce di età) e uomini (tra i quali è diffuso soprattutto tra i più giovani) che lavorano con orario ridotto. Al part-time si fa ricorso in percentuali molto diverse a seconda del settore, a conferma che si tratta più di una modalità imposta dai datori di lavoro che una richiesta dai lavoratori (secondo l’Osservatorio Inps/settore privato): 9,2% nelle costruzioni, 16,4% nel manifatturiero, 38,2% nel commercio, 50,6% nei servizi di alloggio e ristorazione. L’Istat stima nel 59,2% la quota di part-time involontario in Toscana (contro il 57,9% italiano): sul totale degli occupati toscani, uno su 10 ha un contratto part-time, ma vorrebbe lavorare full-time.
Un quadro confermato, al rialzo, dall’indagine sul campo che ha riguardato la ristorazione collettiva e, pur con un campione non rappresentativo, ha offerto uno spaccato interessante di un settore specifico. Il gruppo era composto per l’81,5% da donne e aveva un’età media di 44 anni. Il 66,9% di loro subisce il part-time. Tra il 33,1% che invece ha scelto l’orario ridotto, la metà circa lo ha fatto per una decisione valoriale (avere più tempo per sé e per la famiglia), l’altra metà per problemi legati ai servizi alla famiglia: troppo costosi, con orari rigidi, non adeguati per conciliarsi con un lavoro full-time.
La maggior parte di queste lavoratrici e lavoratori sono occupati da molti anni nella stessa azienda, si tratta quindi di un lavoro stabile, ma parziale. Ci si fa ampio ricorso alla flessibilità oraria: al 74% degli addetti viene abitualmente chiesto lavoro supplementare, al 69% è di prolungare l’orario di lavoro della giornata, al 56% di modificare i turni, non sempre con adeguato preavviso. In molti casi gli addetti di questo settore, pur con un part-time hanno orari misti o spezzati e quindi, pur lavorando poche ore sono ‘impegnati’ per l’intera giornata. Il 46,2% delle intervistate inoltre ha sempre lavorato a tempo parziale, aggiungendo al rischio di povertà lavorativa oggi, quello di povertà previdenziale all’età della pensione.
“Con il ricorso al part-time – dice Alessandro Gualtieri, segretario generale della Fisascat-Toscana – le aziende hanno flessibilizzato il lavoro, rispondendo alle proprie esigenze, ma creando spesso nuovi lavoratori poveri: e le responsabilità sono anche in capo ai committenti di certi servizi, come accade per le mense. La presenza di lavoro povero nel turismo dipende da questo e dalla stagionalità, che per tanti lavoratori non sono una scelta, ma una condizione subita. E’ evidente dunque che parlare di salario minimo in questo settore è solo abusare di uno slogan, perché sarebbe una misura totalmente inefficace. Bisogna invece cercare soluzioni attraverso la contrattazione e la bilateralità. Le imprese devono capire che non possono scaricare tutto il peso sui dipendenti, perché è ingiusto e perché così continueranno ad allontanare i lavoratori da questo settore. Troppe volte quelle di chi non trova addetti per le sue attività, sono lacrime di coccodrillo. Occorre poi intervenire anche sul fronte delle politiche pubbliche, perché le misure di accompagnamento alla conciliazione vita-lavoro non sono più adeguate al mondo del lavoro e agli orari di oggi.”