La cassazione ha condannato il pensionato fiorentino che uccise nel 2014 la moglie malata di Alzheimer a scontare una pena di sette anni ed otto mesi. Respinta la richiesta della difesa dell’attenuante per aver agito con motivi di particolare valore etico.
Confermata dalla Cassazione la condanna a sette anni e otto mesi di reclusione, senza concessione dell’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore etico, nei confronti di un pensionato che nel 2014 a Firenze uccise la moglie di 88 anni afflitta da Alzheimer. Per i supremi giudici, sull’eutanasia non si registra ancora nella società “un generale apprezzamento positivo” ed anzi ci sono “ampie correnti di pensiero che la contrastano”, situazione “che impone” di non concedere l’attenuante etica.
Senza successo, la difesa del pensionato fiorentino. Ha chiesto alla Suprema Corte di considerare come un valore condiviso dalla società “quello di porre fine alle sofferenze della persona, conformemente ai suoi desideri espressi in vita, rimarcandosi, al riguardo, le differenze con l’eutanasia” perchè in questo caso “sussisteva l’ulteriore elemento” di aver posto fine “alle sofferenze di un soggetto amato, insieme all’ossequio della volontà di chi non era più in grado di esprimerla”.
Inoltre nel ricorso i legali dell’imputato, al quale è stato riconosciuto anche dalla Cassazione di aver preso una decisione “difficile e disperata” quando era ormai “incapace di sopportare le sofferenze e l’inarrestabile decadimento fisico e cognitivo della moglie”, hanno fatto riferimento ai paesi europei che hanno legalizzato l’eutanasia e il suicidio assistito, alle sentenze Cedu sul diritto a decidere come e quando morire, a un sondaggio Eurispes da cui emerge il parere positivo degli italiani sull’eutanasia.
Hanno poi ricordato che l’Inghilterra ha introdotto l’aiuto al suicidio per compassione sanzionandolo in maniera più lieve. Ma niente ha fatto breccia. Miglior sorte non ha avuto l’argomento per cui G.V. avrebbe ucciso la moglie, totalmente demente e non più in grado di camminare, per evitare, una volta che lui fosse morto, che il peso di assisterla ricadesse sulle figlia dal momento che non ci sono strutture pubbliche che si fanno carico di questi casi.
Ad avviso della Cassazione, infatti, è da “escludere che la consapevolezza della carenza di pubbliche strutture assistenziali idonee a coadiuvare la famiglia nell’assistenza di congiunti gravemente malati, e senza possibilità di guarigione, commista alla preoccupazione di gravare sulla vita di altri congiunti, pure se moralmente e giuridicamente obbligati verso la persona malata, possa generare, secondo la coscienza etica prevalente nella collettività, la spinta volta a sopprimere la vita dell’infermo quale motivo di particolare valore morale e sociale”.