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“Verdini fece bancarotta e mai si è pentito”

Lo scrive la corte di appello di Firenze nelle motivazioni alla sentenza sulla bancarotta dell’ex Ccf, la banca di cui Verdini fu presidente 20 anni. Verdini fu condannato in appello il 3 luglio 2018 a 6 anni e 10 mesi

Denis Verdini causò un “elevato danno economico al Credito Cooperativo Fiorentino, ai suoi creditori e allo Stato”, ma nonostante “l’elevata gravità dei fatti, sia per la loro continuità nel tempo, sia per la rilevante entità del dolo”, “non ha mostrato una effettiva resipiscenza”, un pentimento, “e le somme che risultano essere state da lui versate o restituite al Ccf sono assai modeste rispetto ai danni causati e non tali da dimostrare una volontà di risarcirli”. Lo scrive la corte di appello di Firenze nelle motivazioni alla sentenza sulla bancarotta dell’ex Ccf, la banca di cui Verdini fu presidente 20 anni. Verdini fu condannato in appello il 3 luglio 2018 a 6 anni e 10 mesi: uno ‘sconto’ di pena rispetto al primo grado (9 anni) che la corte ha stabilito riconoscendo, diversamente dal tribunale, la continuazione fra i reati di bancarotta fraudolenta e la truffa allo Stato per i fondi dell’editoria percepiti dal gruppo editoriale promosso a Firenze dallo stesso Verdini, altro capitolo del processo con numerosi condannati.

La corte di appello nella sentenza radica la bancarotta fraudolenta nella sovraesposizione della banca Credito Cooperativo Fiorentino, che aveva sede a Campi Bisenzio (e che andò in liquidazione coatta nel 2010, anche a seguito delle ispezioni della Banca d’Italia), in particolare verso il gruppo di costruzioni Btp spa, poi fallito, di Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei. A loro la corte di appello ha elevato la pena a 5 anni e 10 mesi (cinque mesi in più rispetto al primo grado), ritenendoli “complici del Verdini con pari intensità di dolo e con piena consapevolezza della illiceità dei finanziamenti che ottenevano” e definendoli “coloro che hanno beneficiato in massimo grado delle condotte distrattive a danno del Ccf, agendo per un esclusivo fine di interesse personale o delle loro società perseguito pur sapendo di danneggiare gli altri clienti della banca”. Le perdite della banca furono ripianate in gran parte dal Fondo di Garanzia delle banche Bcc che – sollevando i correntisti dell’ex Ccf dal rimetterci soldi – acquisì dall’ex Ccf sofferenze per 78 mln di euro netti, svalutati poi a 46 mln euro, e inoltre garantì altri 30 mln di euro di incagli che, passati alla Bcc Chianti Banca la quale aveva rilevato per un euro l’ex Ccf dalla liquidazione coatta – causarono al Fondo stesso altre perdite. In generale, condannando in vario modo anche i membri dell’ex cda della banca, la corte elenca gli “indici di fraudolenza”. Tra questi i contratti preliminari fittizi di mutuo o prestito, privi di reali garanzie (mai perfezionati con contratti definitivi) con cui l’ex Ccf erogò numerosi finanziamenti, poco o mai rimborsati, alle società del gruppo Fusi-Bartolomei. Oppure i “giri” di denaro (espressione intercettata a Fusi) tra società Btp o comunque riferibili a Fusi e Bartolomei che avevano come sorgente l’ex Ccf, da cui uscivano somme ingenti, fino al maxi finanziamento con un pool di banche, tra cui l’ex Ccf (esposta per 10 mln in questa sola operazione, che ne valse 150 mln e non servì lo stesso a salvare Btp dal fallimento). Altro indice le cosiddette bancarotte “fintamente riparate” con “restituzioni solo apparenti che non neutralizzano l’originaria volontà appropriativa”: “simulare il rientro da un’esposizione – argomenta la corte -, compiuto con la connivenza dei vertici del Ccf, è ulteriore indizio della consapevolezza della natura distrattiva del finanziamento e dell’impossibilità del debitore di fornire risorse proprie per restituire il prestito”.

La corte di appello di Firenze, nel processo per la bancarotta dell’ex banca Credito cooperativo fiorentino in cui lo ha condannato a 6 anni e 10 mesi, ha però assolto Denis Verdini “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di finanziamento illecito ai partiti. E’ un capitolo singolo del processo che riguarda cinque fatture emesse dallo stesso Verdini, all’epoca dei fatti tra i maggiori esponenti di Forza Italia, verso società private. In primo grado l’ex senatore era stato assolto dal tribunale per prescrizione per questa specifica accusa. Ma Verdini ha proposto appello chiedendo una chiara pronuncia di assoluzione. L’accusa sosteneva che tali fatture, emesse all’apparenza per la sua consulenza di commercialista, in realtà fossero finanziamenti illeciti a Forza Italia. Però la corte ha creduto a Verdini e l’ha assolto con formula piena, anche perché dal pm non viene chiarito, né viene data prova, perché tali società avrebbero dovuto finanziare il partito di Verdini. Per la corte, al massimo, si potrebbe trattare di fatture per operazioni inesistenti, ma non di finanziamenti illeciti a Forza Italia. Circostanze in cui, sempre secondo i giudici di appello, Verdini agì “operando come soggetto privato e non quale esponente politico”.

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