La rubrica va in onda tutte le mattine alle 8.10 nella trasmissione 30 Minuti su Controradio. Per leggere ed ascoltare tutti i ‘caffè’ vai QUI
La movida, gli aperitivi, le scuole, le palestre…E se invece la verità fosse più semplice ed allo stesso tempo molto più scomoda? Se cioè a determinare questa ‘seconda ondata’ non siano gli assembramenti o i contatti -che del resto c’erano molto di più a luglio e ad agosto- ma l’aria malsana che respiriamo soprattuto nei contesti urbani? A leggere i risultati dello studio pubblicato dalla scuola di epidemiologia della Harvard University di Boston, e curato dalla dott.ssa Francesca Dominici, che potete riascoltare in podcast sul nostro sito, parrebbe proprio così. Il mero aumento di un solo microgrammo per metrocubo delle pm 2,5, le polveri sottilissime prodotte dalle combustioni ma anche dagli sfregamenti, determinerebbe un aumento secco della mortalità covid fino all’11%. E quindi riscaldamento, traffico, condizioni climatiche favorevoli, hanno un’incidenza immediata sulla letalità del coronavirus. Non tanto perché il particolato sia trasportato dalle polveri, su questo non esistono al momento particolari evidenze, ma piuttosto perché, irritando ed indebolendo l’apparato respiratorio lo rende immediatamente più suscettibile agli agenti patogeni. E allora, forse non è un caso che l’impennata dei contagi si sia verificata proprio a fine settembre con la ripresa delle normali attività e il ritorno di un clima favorevole al ristagno degli inquinanti. Se questo fosse vero come sembra, avremmo l’ennesima conferma che il covid è una malattia socioantropologica della contemporaneità. E dunque che per combatterla servirebbe un severo ripensamento del nostro modo di produrre, abitare e muoverci nello spazio. Delle nostre stesse abitudini quotidiane. Quella svolta green insomma tanto declamata ma mai realizzata. Del resto chiudere tutti in casa è semplice, avere politiche lungimiranti in questo senso è molto più costoso, evidentemente, anche dal punto di vista del consenso.
DG