Firenze, nel ghiaccio antartico ci sono tracce dei test nucleari del passato secondo una ricerca coordinata dall’Università di Firenze, un team dell’ateneo fiorentino ha infatti misurato, in una carota di ghiaccio, la presenza di plutonio -239, dovuta agli esperimenti fatti a partire dagli anni ’50.
Il team coordinato da Mirko Severi, Rita Traversi e Silvia Becagli, ha agito con attività di perforazione, estrazione e analisi di una carota pubblicando l’esito sulla rivista scientifica Chemosphere. Il reperto è lungo circa 120 metri, fu prelevato tra il 2016 e il 2017 e trasportata e analizzata nei laboratori del polo scientifico di Sesto Fiorentino.
“Il plutonio-239 è un marker specifico per valutare gli effetti sull’ambiente dei test nucleari iniziati negli anni ’50 e condotti fino agli anni ’80 – spiega Mirko Severi, associato di Chimica analitica dell’Ateneo fiorentino -. Si tratta dell’isotopo fissile primario usato per la produzione di armi nucleari. Il suo ritrovamento, in primo luogo, è utile per determinare una datazione accurata degli strati nevosi: dal punto di vista glaciologico, la presenza di plutonio-239 nelle carote di ghiaccio permette, infatti, di attribuire i campioni agli anni in cui venivano condotti i test sulle armi nucleari”.
A partire dal 1952 sono stati eseguiti numerosi test con ordigni nucleari che durante i primi esperimenti venivano fatti esplodere in atmosfera tanto che la radioattività poteva arrivare in posti lontani dall’esplosione, come l’Altopiano Antartico dove il team ha eseguito il carotaggio.
“L’esistenza di tale materiale radioattivo in un posto così isolato, nella parte centro-orientale del continente a oltre 3.000 metri di altitudine, dovrebbe indurre a riflettere su quanto l’azione dell’uomo impatti sul nostro pianeta – commenta Rita Traversi, associata di Chimica analitica di Unifi – I tempi di permanenza nell’ambiente del plutonio-239 sono lunghissimi, la sua concentrazione si dimezza in 24.000 anni”.
“A differenza degli studi precedenti basati su tecniche di misurazione della radioattività che necessitavano di grandi quantità di campioni (qualche chilo di ghiaccio) – aggiunge la ricercatrice Silvia Becagli – le analisi condotte nei laboratori dell’ateneo hanno permesso di raggiungere risultati soddisfacenti con campioni dal volume molto più ridotto”.